La depressione: patologia clinica o sentimento universale di insoddisfazione?

Introduzione

Il termine “depressione” è spesso utilizzato nella nostra società in modo improprio. “Sono depresso” è un modo generico di esprimere il nostro stato di disagio, tipico di quando siamo pervasi da sentimenti spiacevoli.

La psicopatologia dovrebbe avere il compito, invece, di distinguere la patologia depressiva dal sentimento di infelicità che contraddistingue ed accomuna molti individui. Uno stato di insoddisfazione può essere addirittura funzionale, a volte, per stimolare la crescita interiore ognuno di noi. 

Kurt Schneider (1887-1967), nei suoi testi principali, “Psicopatologia clinica” e “Le personalità psicopatiche”, ha fornito le basi per effettuare un’autentica diagnosi differenziale.

È fondamentale distinguere i sintomi psichici di una patologia in senso medico (come la depressione), dalle varianti caratteriali dell’essere umano che, per quanto abnormi e fonti di vissuti di sofferenza, non dovrebbero essere clinicizzate. Una personalità sofferente non è malata. Può avere, anzi, caratteristiche originali, degne di essere valorizzate.

La depressione come “malattia”

La patologia depressiva in senso medico assume oggi, nella nosografia convenzionale, il termine di “depressione maggiore”.

È coinvolta, secondo Schneider, la sfera vitale dell’individuo ed i suoi relativi sentimenti.

I sentimenti vitali

Sono sentimenti vitali innanzitutto i vissuti dialettici di piacere-dispiacere, dipendenti dal soddisfacimento delle nostre pulsioni. Gli istinti sessuali, alimentari, aggressivi, relativi alla quiete ed al riposo.

Sono inoltre sentimenti vitali i vissuti che derivano dal rapporto tra me stesso ed il mio corpo. Anche questi sentimenti sono antitetici e sperimentabili concretamente dentro di noi, nella loro incessante dialettica intrinseca. Ad esempio, forza-debolezza, benessere-malessere, depressione-eccitazione, sentirsi sani o malati, abili o disabili. Non possiamo avvertire uno di questi vissuti senza conoscere anche il suo opposto (ovvero la sua antitesi dialettica).

La “tristezza vitale” è tipica della depressione maggiore.

Nella “depressione maggiore” assistiamo ad un deficit significativo di energia psicofisica e quindi ad una crisi dei sentimenti vitali.

Il soggetto avverte perdita di piacere per la maggior parte delle attività quotidiane, rallentamento o agitazione psicomotoria, diminuzione della libido, disregolazione dell’appetito e del sonno, astenia, disturbi della concentrazione.

Io sento il mio corpo debole, fragile, non più corrispondente alle mie esigenze di realizzare il mio progetto di vita.

K. Schneider definisce come tristezza vitale la mia percezione di un corpo che sembra affievolito nelle forze, dolorante. Esso non è più lo strumento per affermarmi nel mondo, ma diviene un peso, un ostacolo, un problema.

Lo stato emotivo depressivo si può localizzare anche su una parte specifica del corpo.

Ho sempre quest’oppressione al petto e al collo. Si pianta là come se non dovesse andar via. Allora penso di dover scoppiare, tanto è il male che sento in petto“. Questo affermava una paziente di Schneider. Ci riferiamo ad un corpo simbolico, espressione di un’intima, viva ed attuale sofferenza.

La tristezza vitale si può anche tradurre in vissuti di autosvalutazione e di colpa da parte del soggetto: il paziente può imputare a se stesso la responsabilità del proprio disagio in atto, fino a pensieri di morte e di suicidio.

La malattia depressiva come frattura della storia personale del soggetto

L’insorgenza della depressione maggiore può essere acuta o subdolamente progressiva. Nella maggior parte dei casi, comunque, si registra una frattura nello sviluppo storico della personalità del soggetto. La persona sente che “qualcosa è cambiato”, non si riconosce più nel modo di percepire se stessa, nel proprio corpo e nel proprio agire quotidiano.

Lo stato depressivo può essere slatentizzato da un evento drammatico, come un lutto. Il paziente avverte, tuttavia, sentimenti che vanno oltre ad una comprensibile tristezza reattiva ad un avvenimento.

Nel paziente clinicamente depresso, un evento negativo può anche ripresentarsi alla coscienza a distanza di tempo, attraverso un’intensa retrospezione dolorosa.

Si esprime così una studentessa universitaria di 35 anni a proposito della morte della zia, avvenuta alcuni anni prima:

«Con lei morì per sempre una parte di me, sprofondai piano piano in uno stato di totale anestesia dal quale mi sembrava non riuscissi più a riprendermi. Iniziai a non dormire, posticipavo la sveglia sempre di più, rimandavo lo studio e gli esami, non avevo più la forza e la voglia di reagire, e mentre tutto andava avanti, io rimanevo ferma immobile, mi sembrava che nulla avesse più senso…i miei sforzi, i miei sacrifici mi sembravano inutili e mi lasciai andare allo sconforto».

«Continuavo a pensare a tutte le volte che si era lamentata con me per via di qualche sintomo e a quanto potessi essere stata sciocca a non capire che poteva essere qualcosa di più serio».

(caso clinico tratto da: https://www.istitutobeck.com/wp-content/uploads/2018/03/TESI-SPECIALIZZAZIONE-DDM-Dettori-Giulia-pdf.pdf)

La depressione come sentimento cardinale di un tipo di personalità

Diversa è l’espressività della personalità depressiva. È una variante quantitativa, e non patologica, del comune sentimento umano di infelicità e di insoddisfazione.

Le personalità depressive, pur essendo spesso sofferenti, non rientrano nei criteri riconducibili ad un disturbo mentale. Dalla loro descrizione, molte persone troveranno caratteristiche comuni a se stesse o a qualche conoscente.

Alla base di queste personalità vi è un giudizio negativo sul valore di sè e del mondo che ci circonda.

La personalità depressive sono “individui che guardano alla vita in modo cronicamente pessimistico e almeno molto scettico” (Schneider).

L’atteggiamento pessimistico verso l’abbandono agli istinti: un “amore infelice” verso la vita

Abbiamo visto che nella “depressione maggiore” si rileva un significativo deficit dell’energia psicofisica, con conseguente crisi dei sentimenti vitali.

Nella personalità depressiva, invece, non assistiamo ad una particolare riduzione dell’energia fisica ed istintuale.

Esiste invece un atteggiamento diffidente ed ambivalente, da parte del soggetto, nell’abbandonarsi alla vitalità stessa.

Questi individui presentano un “amore infelice“(Schneider) nei confronti delle componenti istintive dell’esistenza. Ne sono attratti, ma spesso prevale in loro il timore di perdere il controllo delle loro pulsioni.

Io posso essere affascinato dall’esigenza vitale di soddisfare pienamente i miei istinti, ma questo si scontra con il mio ideale di dominarli, anzichè di esserne posseduto. Quindi devo porre un filtro intellettuale ai miei desideri spontanei.

Il mondo interiore della personalità depressiva.

Nella personalità depressiva si può scorgere un ricco mondo interiore costituito da ideali di perfezione, nobili ma astratti.

Nella vita concreta quotidiana questi soggetti, invece, possono apparire impacciati ed insicuri.

È presente un silenzioso interesse verso i sentimenti e le esigenze vitali: amore sessuale, forza fisica, aggressività, bellezza estetica. Prevale però un’inibizione ad esprimerli ed a provare gioia tramite il corpo (frequenti sono invece le manifestazioni ipocondriache).

I dubbi, dalla sfera corporea, possono quindi estendersi al significato della vita stessa. Queste persone spesso sono pervase da interessi filosofici e da aspirazioni ideali a dare un senso autentico all’esistenza.

Tali soggetti fanno spesso fatica ad esprimersi spontaneamente, a parole, con gli altri.

Possono invece eccellere nelle arti figurative, nella musica, nella scrittura o nella poesia. Riescono così a sublimare la loro relazione inquieta ed ambivalente verso la vita.

Le personalità depressive, apparentemente, hanno un atteggiamento ritirato, immerse nelle loro elaborate rimuginazioni.

In realtà hanno spesso grandi capacità nel cogliere i problemi interiori altrui, dimostrando attenzione e sensibilità verso la sofferenza del prossimo.

In loro è spesso presente scarsa autostima e sfiducia in sè (spesso riconosciuta come irragionevole). Si associa, talora, autocompiangimento ed apparente rassegnazione.

La personalità depressiva ha spesso notevoli capacità di adattamento.

Di fronte ad eventi eventi traumatici e negativi (come la perdita di una persona cara o un pericolo per la propria ed altrui incolumità), queste persone possono dimostrare, sorprendentemente, una notevole capacità di adattamento. Sembra che, per quanto dolorosi, tali eventi siano più tollerabili dei propri assilli interni.

Possedendo spesso una spiccata intelligenza ed una forte capacità autocritica, la personalità depressiva può essere abile a “camuffarsi”.

Il paziente affetto da depressione maggiore, invece, spesso fatica a celare, anche solo dalla mimica, il suo stato di sofferenza.

La personalità depressiva può ostentare atteggiamenti esteriori di allegria e di iperattività, spesso nel timore di essere giudicata negativamente per la sua disposizione pessimistica verso l’esistenza.

Può sembrare una persona affabile, cortese, piena di interessi: è come se si costringesse ad adattarsi all’ambiente sociale.

Rispetto a chi prende la vita alla leggera e in modo meno problematico, questi soggetti presentano un atteggiamento molto ambivalente.

Da un lato disprezzano l’uomo medio, allegrotto e superficiale, considerando la loro sofferenza come un elemento nobilitante, aristocratico.

Dall’altro provano una sottile invidia verso chi riesce a condurre un’esistenza spontanea e libera da tormentose esigenze di perfezionsimo.

A volte, anche il contegno dignitoso e la mimica non lasciano trasparire l’umore depresso.

Il buon adattamento sociale delle personalità depressive le rende difficili da ricondurre alle categorie nosografiche tradizionali. Sono scomparse perfino dal Manuale diagnostico DSM!

Alcuni individui di questa tipologia possono andare incontro, tuttavia, ad un’autentica sofferenza, complicata dalla loro orgogliosa reticenza nel chiedere aiuto.

Relazioni tra la depressione clinica e la personalità depressiva

Le personalità depressive sono a maggior rischio di sviluppare una depressione clinicamente significativa, corrispondente ai criteri della depressione maggiore?

K. Schneider evidenzia la necessità di distinguere nettamente le due categorie, sollevando molti dubbi su una transizione da una personalità depressiva ad una manifestazione depressiva clinica.

Altre correnti, come quella neo-kraepeliniana, propongono invece una continuità tra la costituzione depressiva ed una patologia vera e propria (si parla di “spettro” dei disturbi dell’umore).

La personalità depressiva abusa dell’intelletto per evitare il contatto con i sentimenti.

Al di là delle diverse scuole di pensiero, nelle personalità depressive si può cogliere una caratteristica che, se non messa in luce, può costituire un rischio di sviluppi patologici: la tendenza a non vivere pienamente i propri sentimenti ed a distaccarsi da essi, tramite un eccessivo uso dell’intelletto e del pensiero razionale.

Sentimenti ed emozioni devono essere parte integrante della mia vita per una soddisfacente salute psicofisica.

Quando penso e parlo delle mie emozioni in termini razionalistici ed analitici, le spoglio della loro spontaneità ed originalità. In questo modo mi allontano dai sentimenti vitali.

Questo processo, se non diviene consapevole, può condurmi ad una patologia depressiva vera e propria, così diffusa nella società occidentale.

Nella nostra cultura, abbiamo infatti la tendenza a privilegiare modalità di pensiero logico-razionali, nella vita lavorativa così come in quella privata.

Il lavoro e l’azione come “terapia” per le personalità depressive.

Schneider, a proposito delle personalità depressive, afferma: “Il migliore amico di questi uomini è il lavoro e si farà bene a utilizzare questo metodo nei loro confronti con comprensione”.

Per “lavoro” si intende qui non un’astratta attività intellettuale. Al contrario, l’Autore si riferisce all’azione

Nell’attività consapevole (che sia lavoro, sport, hobby o qualunque occupazione coinvolgente), sentimento e pensiero diventano un’unità concreta.

Il ruolo della psicoterapia.

Anche una psicoterapia, per essere efficace in questi soggetti, non deve ridursi ad un’astratta analisi intellettualistica riguardante il senso della vita. Questo potrebbe, paradossalmente, rafforzare il dubbio pervasivo che caratterizza tali personalità.

Una psicoterapia efficace deve invece indurre il paziente a riscoprire e a rivivere tutti i suoi sentimenti, nella loro attualità e dialettica. A costo, soprattutto all’inizio del trattamento, di incontrare sofferenza e disagio.

Nel corso delle prime sedute, potranno fare irruzione vissuti emotivi apparentemente irrazionali ed inafferrabili. Coraggio ed apertura alla sofferenza sono i requisiti fondamentali per intraprendere ogni tipo di psicoterapia.

Il sentimento non è una “cosa”, un oggetto da tenere distante da sè tramite il filtro razionale.

La mia ragione ritrova la sua dimensione funzionale quando, al contrario, mi aiuta a riprendere coscienza che emozioni e sentimenti sono io stesso, ovvero la parte più originale ed autentica della mia personalità.

Vedi anche: I sentimenti umani nella loro psicologia e dialettica

Si consiglia la visione di questo video: https://www.youtube.com/watch?v=T0IzELTVxbk

A.T. Beck e la psicoterapia cognitiva della depressione: contributi ed analisi critica.