Nel testo “Avere o essere?” (1976), Erich Fromm descrive il panorama sociale del mondo a lui contemporaneo (persistente nell’epoca attuale), in cui l’uomo è pervaso dal sogno di diventare “padrone dell’esistenza”.
Mito che è poi fallito, quando tutti noi abbiamo preso coscienza di essere stati ridotti ad ingranaggi di una gigantesca macchina burocratica.
La ricerca compulsiva del piacere
A questa illusione si è associata una compulsiva “ricerca del piacere”, grazie alla disponibilità di beni materiali conseguenti al moderno progresso tecnologico.
La sensazione piacevole, osserva Fromm, è tuttavia passiva. Dipende necessariamente da uno stimolo esterno e produce un’effimera sensazione gradevole, incapace di consentire al soggetto una migliore conoscenza di sè.
Io posso essere pervaso da una sensazione stimolante. Se però mi abbandono ad essa senza un ruolo attivo nell’esperienza, mi troverò in una condizione analoga a quella di un topo da laboratorio, condizionato passivamente a muovere una leva che eroghi una ricompensa.
Quando il piacere non si associa ad una riflessione attiva su che cosa mi sta accadendo, può obnubilare le mie attività psichiche, portandomi ad uno stato di rilassamento fine a se stesso.
Fromm differenzia la sensazione piacevole dalla gioia: quest’ultima nasce da un’attività dell’Io e presuppone una personalizzazione dell’esperienza.
La tendenza ad “avere”: accumulare cose
Secondo l’Autore, la popolazione occidentale è stata indottrinata alla spasmodica ricerca di gratificazioni da consumare, con il costituirsi di una società basata sull’utilitarismo e sullo sfruttamento interpersonale.
Questi fenomeni si collegano alle tipiche modalità dell’ “avere”, cioè alla ricerca del piacere attraverso forme di un avido accumulo e consumo di cose.
Il problema è che l’uomo descritto da Fromm, accumulando oggetti che sembrano attraenti e gratificanti, non potrà mai sentirsi soddisfatto, perché tale desiderio di possesso non avrà mai fine.
Infatti, dopo un piacere soddisfatto, ogni individuo subirà sempre l’attrazione da parte di “ancora altre cose”: una bella macchina, una bella casa, un partner più attraente, ecc.
La mente, seguendo questo automatismo, si autoconvince che se solo riuscirà a possedere “ancora quella cosa”, tutto sarà allora perfetto ed egli sarà definitivamente felice.
In realtà, l’essere umano è vittima del suo autoinganno, perché il suo orizzonte si sposterà sempre al di là della disponibilità attuale.
Nell’ottica di un accumulo di oggetti e nell’illusione di una felicità mai raggiungibile, l’uomo occidentale si tormenta inseguendo un piacere mai realizzabile totalmente.
Questa esperienza gli lascia un sentimento di manchevolezza e di inappagamento, nella tensione costante verso qualcosa che non basta mai: è una mentalità compulsiva e tossicofilica.
L’alienazione dell’uomo moderno dalla Natura
Pervaso da questo spirito, Fromm osserva come l’uomo sia andato avanti ciecamente, sfruttando anche la Natura.
Il mondo naturale non è più considerato come un organismo vivente di cui io sono parte, ma come un oggetto da sottomettere e da scomporre, senza rispetto.
La strumentalizzazione dell’altra persona
Anche l’altra persona è considerata, secondo questa mentalità consumistica, nient’altro di una cosa tra le cose.
Più che relazioni tra soggetti, alcuni esseri umani sembrano ridursi a svolgere interazioni simili a quelle tra due macchinari, cioè automatiche e spersonalizzate.
Queste osservazioni ci ricordano il contributo di M. Heidegger ed il suo concetto di “caduta dell’uomo a livello delle cose”.
L’uomo che non riesce a ricreare se stesso, ma sa solo incorporare nuovi oggetti, si degrada egli stesso a cosa, a materiale inerte ed inorganico, in una spirale regressiva di cui perde consapevolezza.
L’uomo moderno: si è evoluto o è regredito?
Fromm, a proposito della compulsione dell’adulto ad impadronirsi di oggetti, usa il termine di “introiezione”. Nel linguaggio psicoanalitico, è il meccanismo primitivo del neonato: intende appropriarsi del seno materno e sfruttarlo per il suo nutrimento.
Il lattante strilla, vuole il latte e, se non vede esaudito immediatamente il suo bisogno, può avere reazioni incontrollate di frustrazione, rabbia, distruttività ed autodistruttività.
L’uomo contemporaneo è regredito, infantilizzato, addirittura ridotto a livello delle cose.
È disposto a tutto, per avere subito qualcosa che ancora non ha.
L’impoverimento del linguaggio
L’atteggiamento dell’uomo moderno, a livello più subdolo e inconsapevole, si riflette anhe nel linguaggio contemporaneo. Fromm sottolinea che vi è la comune tendenza a trasformare il verbo in un sostantivo, per esprimere un sentimento come se fosse una cosa.
Ad esempio, se io devo dire che mi sento infelice o preoccupato, tendo a dire che “ho” un problema. Cerco così di disconoscere un sentimento negativo interiore, proiettandolo nell’esteriorità come se fosse un oggetto.
In questo distacco emotivo, non a caso, uso il verbo avere al posto del verbo essere.
Così dire “ho l’insonnia”, anziché “di notte mi sento agitato”, comporta un distanziamento da un mio disagio interiore, presentato come un ostacolo esterno, che deve essere rimosso (eventualmente ricorrendo ad uno psicofarmaco).
Analogamente posso dire ”ho un matrimonio felice”, anziché affermare ”sono felicemente sposato”.
Trasformo cioè i sentimenti in “cose” che possiedo, aspiro a possedere o di cui voglio disfarmi. È un modo di parlare che tradisce una sottile forma di alienazione dalla sfera emozionale.
L’individuo è sempre più un automa che possiede, consuma ed elimina cose, come avviene nelle trasformazioni della materia inorganica.
La ricerca di “essere”
A quest’alienante modalità dell’avere, Fromm contrappone la dimensione dell’essere, ovvero la ricerca di un’intima unione esistenziale tra me e l’altro, tra me e la natura vivente: l’altro non è qualcosa da sfruttare, incorporare, possedere, ma qualcuno con cui stabilire una profonda analogia emotiva, intuitiva ed immediata, fino al ritrovare una parte di noi stessi.
Le contraddizioni dell’istituzione scolastica
Questa ricerca di raggiungere la modalità dell’essere, secondo l’autore, dovrebbe innanzitutto svilupparsi nella scuola e nel sistema educativo.
Fromm deplora, infatti, come la scuola si sia ridotta ad un luogo dove accumulare nozioni, memorizzarle come fossero “cose” da utilizzare solo per ottenere risultati tangibili: buoni voti, un lavoro ben retribuito, prestigio sociale, ecc.
Forte è quindi la critica di Fromm all’educazione scolastica, che tenderebbe non tanto a formare la personalità, quanto a produrre automi: alunni passivi ed obbedienti, che rinunciano a sviluppare uno spirito originale e critico.
Anzi, il modello di persona che la scuola sembra voler creare è, secondo l’autore, nulla di più di una buona “guida di un museo”: qualcuno, che conosce tante cose, elementi e nozioni, per ripeterli meccanicamente, fornendo informazioni già acquisite, senza stimolare la curiosità e l’intenzione di sviluppare nuovi interessi. Quindi può divenire, certamente, una brava guida, ma anche un individuo passivo, che svolge un’automatica routine.
E’ molto simile al soggetto che conduce una vita inautentica, impersonale ed anonima, ben descritta da M. Heidegger.
L’uomo è un soggetto in azione o è un oggetto passivo?
La chiave per comprendere la differenza tra “essere” e “avere” è stabilire se il mio comportamento sia attivo o passivo.
Tutto ciò che riguarda il mio modo di essere è attivo: significa rinnovarsi, muoversi, crescere, “uscire dal carcere del proprio io isolato”, per interessarsi all’altro. “Quanto più io mi libero di cose, tanto più io sono e ritrovo me stesso, libero dalla prigionia delle cose” – afferma Fromm.
Paradossalmente, più cose io ho, meno sono in grado di essere e di amare.
Tutto questo, trasferito nel linguaggio psicoanalitico, suggerisce una riforma dell’epistemologia della psicoanalisi ortodossa: in essa anche l’Io è concepito come una cosa, una struttura, che cerca di conservare per sé l’energia dell’organismo attraverso la libido.
L’individuo è concepito come un oggetto che deve regolare il flusso della libido verso il mondo esterno, attraverso i cosiddetti meccanismi di difesa: altro non sono che puri automatismi, incompatibili con l’idea di una vera ed autentica personalità.
l’Io dovrebbe essere, invece ,concepito non come un insieme passivo di risposte a stimoli predefiniti, ma come una personalità attiva, che aspira incessantemente alla sua realizzazione.
Alla base della persona deve essere posta la coscienza dell’Io, che si sviluppa attraverso la conoscenza dell’altro, inteso come parte di me (al di là degli illusori confini del corpo fisico).
Commento ed analisi critica
L’uomo investe la propria energia verso l’altro in un fluire continuo e inarrestabile, nell’ambito di una relazione che noi definiamo dialettica.
Secondo Fromm si dovrebbe riformulare la teoria freudiana, pur riconoscendone i fondamentali apporti clinici, proprio con un ribaltamento dei due piani: l’avere subordinato all’essere e non viceversa.
I termini “avere” ed “essere”, per essere adeguatamente compresi, devono essere inquadrati dialetticamente, cioè in rapporto alla personalità di ognuno di noi.
“Avere” ed “essere” sono antitetici?
Non è detto che il concetto di “avere” sia legato solo a beni materiali. Può essere anche connesso a beni culturali, a tutto quanto comprenda la spiritualità umana, ad un accrescimento del mio essere interiore.
Il possesso non è solo un impulso automatico, ma può essere anche una scelta consapevole. Possedere un oggetto (come un libro) può rappresentare una mia esigenza profonda: vi posso trovare insegnamenti, norme, valori da condividere, che diventeranno parti di me.
Quindi io rivendico il diritto di avere a disposizione quanto la società mi può offrire, per l’accrescimento della mia personalità.
In questo caso, l’avere non è in contrapposizione col mio essere. Qualunque attività materiale può essere significativa e nobile, se associata al rispetto ed alla valorizzazione delle persone e del mondo che ci circonda.
L’avere è necessario al soggetto per determinarsi, a patto che non si associ ad una forma di attaccamento statico, fine a se stesso, agli oggetti.
A proposito, invece, dell’ “essere”: dove dobbiamo cercarlo? Nell’esteriorità o nell’interiorità?
Nel mondo dell’esteriorità, la concezione dell’essere più coerente è quella che in filosofia risale a Parmenide. Egli descriveva un Essere assolutamente immobile, statico, in quanto già compiuto e realizzato in tutte le sue determinazioni.
L’Essere non si muove perché già “è”: il movimento, in questo contesto, è segno sempre di imperfezione, inquietudine, inappagamento. Se l’Essere divenisse, significherebbe che aspira a possedere qualcosa che gli manca, il che è impossibile.
In Natura nulla si crea e nulla si distrugge: la natura è sempre la stessa, per essa va tutto sempre bene comunque.
Tale concezione di Essere è tuttavia astratta: non la troviamo nella nostra esperienza di vita individuale.
L’essere come incessante “divenire” nell’esistenza umana
Nell’interiorità umana conosciamo invece un altro tipo di essere, totalmente contrapposto: la mia esistenza è un continuo divenire, un’incessante sequenza di cambiamenti; nulla è statico, tutto è impermanente.
La mia esistenza è un tutt’uno con il sentimento originario di trascendere me stesso ed i miei limiti per arrivare ad un traguardo ideale, la mia auto-realizzazione. Essa è irraggiungibile in modo assoluto; tuttavia, proprio gli ostacoli e i problemi che si presentano sono il pungolo che mi tiene vivo durante l’intera esistenza.
L’essere dovrebbe essere concepito, fin dagli inizi, come un divenire dialettico tra Io e non-io: quest’ultimo è l’insieme dei miei problemi ed incertezze, che pur nella sua negatività, svolge un ruolo funzionale ed insostituibile per la mia conoscenza.
Avere ed essere devono essere interpretati e vissuti senza pregiudizi, senza demonizzare l’ “avere” ed esaltare l’ “essere”.
Avere ed essere come sentimenti dialettici e complementari
Consideriamo avere ed essere come due sentimenti dell’Io, tra i quali esiste una dialettica, non una contrapposizione statica (come sembra talora esservi in Fromm): io aspiro alla mia piena e progressiva realizzazione cercando di superare sempre me stesso, attraverso un costante incontro di oggetti esterni che voglio oltrepassare o integrare in me.
La mia crescita, inoltre, non è una questione personale, ma coinvolge sempre anche lo sviluppo dell’altro (riconosciuto come altro che è in me, secondo gli insegnamenti di Binswanger).
E come? Attraverso il dialogo. Prendiamo ad esempio il dialogo socratico (in contrapposizione con quello sofistico). Per Socrate nel dialogo non c’è alcun intento di sopraffare l’altro, attraverso una dialettica strumentale. L’esito è così un accrescimento della personalità di entrambi i dialoganti.
Non vi sarà mai chi dica di aver vinto, magari attraverso un artificio retorico e suggestivo.
Se, insieme a te, io sono arrivato ad un punto superiore di conoscenza, questo si trasformerà in una nuova ricchezza interiore per entrambi. Tale verità acquisita, un avere, può diventare parte integrante del mio essere ed al tempo stesso una verità universale per gli altri.
Questo è il procedimento della nostra Psicoterapia Dialettica.
Posso giungere alla mia realizzazione come personalità cercando di superare sempre me stesso, proprio tramite le mie relazioni con l’esteriorità. Essa è rappresentata dal mio corpo, l’altro, il mondo esterno. Questa relazione è funzionale anche nei momenti inevitabili di crisi e di conflittualità.
Questo noi intendiamo per Dialettica. Su questa forma dialogica si basano anche il nostro metodo di psicoterapia e l’inquadramento storico del pensiero individuale ed universale.
Vedi anche:
Si consiglia il seguente video: https://m.youtube.com/watch?v=HhlMeqTwnfQ
Una opinione su "Fromm e il dilemma contemporaneo: “Avere o Essere?”"