L’uomo come coscienza di sè e di “essere nel mondo”.
Nel pensiero del primo Heidegger (fino al 1930, soprattutto nell’opera Essere e tempo) si può cogliere il ruolo centrale del sentimento umano come modalità immediata di conoscere l’altro e se stessi.
Mentre il pensiero intellettuale è logico e segue una linearità di causa ed effetto, il sentimento invece è analogico ed allusivo: può essere compreso attraverso simboli che disvelano una realtà più profonda, cui Freud dà il nome di inconscio.
La potenza di alcuni sentimenti irrazionali risulta spesso talmente elevata che io posso disconoscerli, attribuirli ad oggetti esterni, proiettarli su un altro, che può diventare anche la radice dei miei problemi: diniego e proiezione sono meccanismi di difesa primitivi, che la psicoanalisi si pone il compito di studiare.
Come evidenzia Heidegger, l’uomo è l’unico essere vivente a porsi il problema dell’esistenza. La sua vita è un continuo autoproblematizzarsi, che nasce dalla contrapposizione tra se stesso e la realtà.
L’uomo è un essere-nel-mondo (dasein). Vive in quanto incarna la tensione continua tra soggetto e oggetto: un uomo senza il mondo (come pure il contrario) è una pura astrazione intellettuale, che non risulta funzionale alla conoscenza.
Heidegger intende pervenire ad una scienza concreta per comprendere l’individuo nella sua essenza.
Tutti i metodi conoscitivi che forniscono verità già prestabilite, comprese le scienze naturali, non sono in grado di arrivare alla radice della conoscenza.
L’autore individua invece nella comprensione empatica e nell’identificazione, nell’altro, di parti di sè come essenziali alla vera conoscenza dell’uomo.
La cura di sè e dell’altro: il nucleo dell’esistenza umana.
Significativo è il sentimento di cura che, secondo Heidegger, è alla base della stessa esistenza umana.
Il termine “cura” viene riscoperto nel suo significato originario: in latino significa prima di tutto responsabilità, sollecitudine; in secondo luogo, inquietudine, preoccupazione; in terzo luogo, amore, pena amorosa.
L’uomo vive in quanto si prende cura delle cose e ha cura dell’altro.
Questo sentimento originario (che prende vita in noi in ogni atto terapeutico) permea tutte le attività dell’essere umano. Più la cura è consapevole, più le nostre azioni andranno a buon fine.
L’uomo crea la sua realtà attraverso il linguaggio.
Nel pensiero di Heidegger, grande valore viene attribuito al linguaggio: esso non è solo un codice di comunicazione, ma è il vero e proprio disvelamento dell’essenza dell’uomo e dei suoi sentimenti pervasivi, talora contraddittori e contrastanti.
Riscoprendo l’importanza del linguaggio e del dialogo, le varie psicoterapie (in particolare quelle analitiche) si svilupperanno con l’esigenza di trovare il significato nascosto che ognuno di noi veicola nelle singole parole.
Attraverso l’etimologia possiamo anche riconoscere diversi sentimenti collettivi che restano celati nel linguaggio convenzionale.
Si può partire dal concetto stesso di “esistere” che deriva, come ricorda Heidegger, dal latino ex-sistere: letteralmente, stare oltre se stessi, trascendere la realtà, per scegliere un progetto di vita in continuo mutamento (in greco, esistere e divenire sono sinonimi).
Non vi è, in questo senso, una trascendenza esterna al soggetto (nè Dio nè la Natura come vero Essere). Esiste solo il sentimento umano di trascendere, ovvero la volontà di superare se stessi e i propri limiti. E’ l’accettazione di affrontare costantemente un problema proveniente dalla realtà.
Heidegger, in “Essere e tempo”, sembra inizialmente alludere alla possibilità dell’uomo di realizzarsi attraverso un continuo auto-trascendimento.
Questa aspirazione tende a svanire, soprattutto negli scritti successivi, fino al ripristino della visione classica di un Essere metafisico esterno e dominante sull’uomo.
La trascendenza è il sentimento di tensione verso qualcosa, un ideale cui costantemente l’uomo aspira, da cui nasce la stessa vita psichica.
Non avere problemi equivale a non esistere, ad essere morti. L’essere umano è vivo quando è in divenire, quando si sente in gioco.
Esistenza autentica ed inautentica.
La vita psichica può esistere solo in rapporto ad una possibilità di scelta: all’uomo si pone l’alternativa tra l’esistenza autentica e quella inautentica.
La vita inautentica non è altro che la nostra vita quotidiana. E’ una routine cui siamo abituati, che consiste in un ruolo da ricoprire (familiare, lavorativo, sociale) e in mansioni prestabilite da svolgere. Tutto questo è già dato, come un meccanismo che prevede noi stessi tra gli ingranaggi.
Quando l’uomo si automatizza, cade a livello delle cose (deiezione).
L’esistenza inautentica viene definita anche anonima, impersonale: è il contrario della spontaneità che contraddistingue il singolo individuo.
Un’esistenza anonima è caratterizzata da uno stile di pensiero “circolare”, in cui ogni conclusione è già implicita nei presupposti. Corrisponde ad un atteggiamento verso la vita passivo, ripetitivo, stereotipato, in cui l’uomo limita a contemplare una realtà già prestabilita.
Talora l’esistenza inautentica sembra uno stato della mente umana.
L’uomo può scegliere se divenire consapevole di questo meccanismo alienante. Oppure, come più spesso avviene, lasciare che il mondo esterno agisca al suo posto e lo tratti come una cosa.
Quando l’individuo si oppone a questo processo di depersonalizzazione, ha l’occasione di risvegliarsi e di realizzare l’esistenza autentica.
Il prezzo da pagare è però estremamente alto. La nostra consapevolezza di aver vissuto gran parte della mia esistenza “a livello delle cose” si accompagna a dover provare sentimenti pervasivi, arcaici, di intensità drammatica. Ci riferiamo ai vissuti di angoscia, colpa, abbandono, vergogna.
Angoscia, colpa e vergogna: non solo sintomi “psichiatrici”.
Alla radice dell’angoscia vi è uno stato di frustrante passività, in cui io mi sento incapace di controllare una condizione che mi sovrasta e mi opprime (dal latino angere, stringere).
La colpa, secondo Heidegger, è un altro sentimento radicale dell’essere umano.
La colpa più dolorosa non è quella di aver violato una legge socialmente sancita (posso sempre pentirmi e cercare un’espiazione, un’azione riparatoria). È invece il sentimento di essere costitutivamente in difetto, manchevole, inadeguato a realizzare l’ideale che io stesso mi sono posto.
E’ un vissuto di colpa che sfocia nella vergogna, sentimento difficile da celare: quando provo vergogna, io arrossisco (per l’imbarazzo o la rabbia).
La vergogna è uno stato d’animo inaccettabile e frustrante, dal momento che non posso fare nulla, neppure pentirmi, perché non c’è un’azione di cui posso rimproverarmi. Posso rivolgere la rabbia contro me stesso, oppure nascondermi, per stare da solo.
Al senso di chiusura e di solitudine si associa il sentimento di abbandono: è la percezione di rassegnazione mista a rabbia nel sentirsi soli di fronte ad un destino che appare necessariamente già prestabilito, spesso con una monotona ripetitività.
Il destino in greco prende il nome di ananke; in italiano è noto il termine di pensiero anancastico. Indica uno stile cognitivo ossessivo, ripetitivo, che si associa ad angoscia. Corrisponde alla sensazione che i miei stessi pensieri siano involontari ed imposti alla mia coscienza.
Nel paziente psichiatrico, ma anche in ognuno di noi, spesso possiamo cogliere, dietro un atteggiamento di freddezza o di apatia, il rischio di irruzione di questi sentimenti primitivi e paralizzanti.
Il rifugio che l’uomo può trovare è l’oblio della consapevolezza (la rimozione, secondo la psicoanalisi), attraverso l’adesione ad un’esistenza inautentica.
L’esistenza autentica è invece l’accettazione totale della vita, anche delle componenti tragiche.
Paradossalmente, più divengo consapevole di me stesso, più sono esposto a provare angoscia, colpa, vergogna e solitudine.
Se però accetto di provare questi stati d’animo e li tollero, secondo Heidegger, sono pronto per vivere autenticamente la mia esistenza e per affrontare anche l’idea della morte, il pensiero più abissale.
Non è tanto la morte in sè il problema (da morto, io non esisto già più), quanto il vivere nell’attesa del proprio nulla.
La vera libertà di scelta è questa, secondo l’autore: accontentarsi di vivere in modo mediocre, attraverso un insieme di schemi prestabiliti e di rituali già dati (cui Freud dà il nome di meccanismi di difesa), per rimuovere dalla coscienza il tema della morte.
Oppure accettare consapevolmente che il nostro progetto di vita tenda verso il nulla. L’uomo in grado di tollerare l’attesa del proprio annichilimento, sarà pronto ad entrare nella Storia.
La storicità è intesa come la capacità dell’essere umano di ereditare consapevolmente i valori tramandati dagli uomini liberi che lo hanno preceduto. E di proiettare questi ideali nel futuro per le generazioni successive, lasciando una personalizzazione dell’esperienza, un contributo innovativo, un’impronta attiva.
La ricerca di un senso alle esperienze di vivere e di morire.
L’uomo consapevole impara a vivere per la morte, senza volere per questo il suicidio.
Togliersi la vita è, in realtà, l’atto di estrema non accettazione della morte. Si cerca la propria scomparsa perché non si riesce ad attenderla.
Vivere autenticamente significa, invece, accettare attivamente tutti i nostri sentimenti, sia piacevoli che spiacevoli, per declinarli nell’unico modo che conosciamo: secondo la nostra personalità.
Scrive Heidegger:
“Se prendo la morte nella mia vita, la riconosco, e l’affronto a viso aperto, mi libererò dall’angoscia della morte e dalla meschinità della vita – e solo allora sarò libero di diventare me stesso.”
Su queste basi, autori come L. Binswanger e V. Frankl metteranno in luce le componenti di “pazzia” dell’animo umano. Il disturbo mentale sembra talora una disperata difesa, un vano tentativo di fuga dalla sofferenza e dall’idea della morte.
“Pazzia” deriva dal termine pathos, che rimanda al verbo pasko: in greco significa soffrire, ma anche genericamente “provare emozioni”, “trovarsi in una situazione affettiva”.
E’ come se l’uomo si ritrovi, passivamente, travolto da stati d’animo pervasivi ed alienanti.
Quando il sentimento umano è vissuto come se fosse estraneo ed imposto dall’esterno, non potrà che portare alla sofferenza ed alla follia: sia intesa nel termine convenzionale, sia come l’irrazionalità presente in ognuno di noi.
Quando, invece, viviamo i nostri sentimenti con attiva partecipazione, si risveglia la nostra nostra dialettica interiore, che è la base per lo sviluppo della nostra personalità.
Vedi anche: I sentimenti umani nella loro psicologia e dialettica
Si consiglia la visione del seguente video: https://www.youtube.com/watch?v=oyt7FEqP1AI
L’antropoanalisi: L. Binswanger e l’aspirazione a comprendere la follia.
2 pensieri riguardo “Heidegger e la psicologia: la ricerca di un significato ai sentimenti umani.”