Introduzione
Nietzsche afferma: “Questo mondo è la volontà di potenza, e nient’altro”.
“Lo scopo non è l’umanità, ma l’Oltre-uomo”.
Nel gennaio 1889 un paziente fu ricoverato presso il manicomio di Jena, per essere preso in cura dal Prof. Otto Binswanger (zio paterno del più celebre Ludwig).
Un giorno, durante la degenza, uno psichiatra scrisse nella sua cartella clinica:
“Il paziente mostra evidenti spunti paranoici di megalomania: dichiara di essere un grande filosofo“.
Ma era soltanto un individuo delirante o era anche un grande filosofo? Quell’uomo era Friedrich Nietzsche.
Vediamo di ridefinire le caratteristiche del suo pensiero filosofico.
Al di là dei concetti convenzionali di sanità e di follia, Nietzsche sostiene che la vita umana non va repressa nella sua spontaneità, nè utilizzata come mezzo per raggiungere un presunto “Aldilà”.
L’esistenza non “serve” a nulla, ma è volontà di potenza fine a se stessa: è puro volere vivere.
Differenze tra Schopenhauer e Nietzsche: negazione del volere vs volontà di potenza
Friedrich Nietzsche (1844-1900) si pone inizialmente come continuatore di A. Schopenhauer. Finisce poi col contrastare radicalmente la visione del mondo del suo ispiratore.
Nietzsche, negli anni di formazione, trova una fondamentale ispirazione dalla lettura de “Il mondo come volontà e rappresentazione”. Egli scrive in un frammento autobiografico del 1867:
“Qui ogni riga gridava la rinuncia, la negazione, la rassegnazione; io guardavo come in uno specchio il mondo, la vita e la mia propria anima, grandiosi di orrore; qui, simile al sole, il grande occhio dell’arte mi fissava, staccato da tutto; vedevo malattia e guarigione, esilio e rifugio, inferno e cielo”.
Schopenhauer proponeva la negazione della volontà individuale di vivere come supremo valore, secondo un atteggiamento nichilistico che Nietzsche definisce “passivo”. Quest’ultimo vede l’uomo di fronte ad una scelta fondamentale: o si rassegna e si ritira dal mondo, disprezzandolo in ogni elemento, o accetta e valorizza la vita per quello che è.
Nietzsche e il “nichilismo attivo”.
Attraverso la forma del nichilismo attivo, Nietzsche è consapevole che la vita non è destinata a fornirci nulla di piacevole dal punto di vista individuale.
Nonostante ciò, dobbiamo tollerare ogni sofferenza per aderire all’ordine universale. Finchè la realtà non diventi un tutt’uno con la nostra personale volontà di potenza.
Troviamo in Nietzsche l’aspirazione ad una visione storica da cui scorgere il senso della volontà umana di conoscere.
Egli rifiuta l’idea della Storia come una ricostruzione “archeologica” di avvenimenti, in una fredda concatenazione causa-effetto. Intende invece proporre uno Storicismo critico ed attivo.
Attraverso questa prospettiva il filosofo vuole conferire un significato agli eventi del passato, che vanno rivissuti nel contesto dell’epoca attuale e compresi con l’aiuto della psicologia. Essa per Nietzsche è la “regina delle scienze”.
La tragedia greca come rappresentazione dell’esistenza umana
Nel testo “La nascita della tragedia” (1872) il filosofo tedesco propone l’originale teoria psicologica secondo cui la civiltà occidentale, nata nell’antica Grecia, sia sorta non da un’esigenza razionale di ordinare la realtà, ma dalla volontà di celebrare i sentimenti vitali dell’individuo.
Ne sarebbe una testimonianza il culto di Dioniso, dio (o demone, a seconda dei punti di vista) dell’ebbrezza, della gioia folle, dell’eccesso orgiastico: egli rappresenta l’adesione totale alla vita.
Questo atteggiamento non corrisponde però ad un abbandono estetizzante ai piaceri dei sensi: nell’uomo dell’antica Grecia esiste infatti una profonda consapevolezza della componente tragica che caratterizza la vita di ognuno di noi.
Il culto di Dioniso diventa quindi, per l’individuo, il tentativo di chiedere un aiuto ultraterreno per celebrare la vita presente e per sopportare la sofferenza che lo attende nel corso dell’esistenza.
L’altro mezzo per sopravvivere all’apparente incomprensibilità del dolore, è cercare di conferire al mondo un ordine razionale: nella Grecia antica nasce una filosofia oggettiva, da cui si svilupperanno le scienze naturali.
La ricerca dell’armonia.
Nell’uomo greco sono presenti le aspirazioni, apparentemente antitetiche, di ognuno di noi: una è quella di seguire l’intuizione del sentimento, per cercare una connessione immediata con l’assoluto; l’altra è quella di ordinare la realtà secondo i parametri della ragione, per ristabilire un equilibrio nella visione del mondo (per quanto precario).
Nella tragedia greca di Eschilo e Sofocle si instaura, secondo il filosofo tedesco, una miracolosa armonia tra sentimento e ragione.
In queste antiche rappresentazioni teatrali assistiamo ad una ricorrente sequenza di eventi: il protagonista nasce con l’aspirazione ad affermarsi, a realizzare se stesso, nella tensione verso la totalità.
Il suo iniziale successo, però, suscita vissuti di invidia e di risentimento da parte degli dei, timorosi che il soggetto possa mettere in discussione la loro superiorità.
Insorge quindi la “nemesi” (la vendetta divina), che condanna il protagonista ad affrontare terribili sfide contro altri personaggi ed elementi della Natura.
Conoscere attraverso la sofferenza: “Pathei mathos”.
Il soggetto impara attraverso la sofferenza (“Pathei mathos”, scriveva Eschilo) e conferisce ad essa un senso: paradossalmente, proprio grazie alla sofferenza il protagonista matura e diviene eroe.
Al singolo individuo, inoltre, si prospetta una sfida impari contro la potenza dell’ananke, il destino necessario ed immutabile, cui anche le divinità devono sottostare.
Il protagonista della tragedia quindi soffre fino ad un’inevitabile morte; egli tuttavia diventa eroe proprio perchè accetta di aderire a questo tragico destino di annichilimento individuale.
Diviene infine immortale grazie alla potenza della rappresentazione artistica, che riattualizza la vita del protagonista in ogni riedizione scenica e sublima il soggetto dal suo misero destino di scomparire nel nulla.
Nelle opere di Eschilo e Sofocle, la struttura razionale dell’opera artistica veicola autenticamente i sentimenti del protagonista e degli altri personaggi, nella loro dialettica intrinseca.
La decadenza degli ideali classici.
Caratteristiche dello splendore della civiltà occidentale classica, e della figura dell’eroe, sono la bellezza estetica come riflesso della bontà d’animo (“kalos kai agathos”), l’unità tra mente e corpo (“mens sana in corpore sano”), l’amore sessuale, la gioia, la voglia di ridere, la fierezza (distinta dall’orgoglio personale) e l’amor proprio (diverso dall’egoismo). Insomma, la volontà di potenza.
L’armonia tra sentimento e ragione della tragedia classica e della cultura greca vanno in crisi, secondo Nietzsche, con l’affermarsi del pensiero di Platone.
Tramite l’influenza di questo filosofo assistiamo al prevalere della dimensione “apollinea” (intellettuale), su quella “dionisiaca”.
Si sviluppa così il “pallido culto della ragione“, segno inesorabile della decadenza della civiltà occidentale, tuttora in corso.
La crisi della volontà di potenza
L’involuzione della civiltà occidentale prosegue, secondo Nietzsche, con l’affermarsi del Cristianesimo: una sorta di platonismo semplificato e reso comprensibile alle grandi masse.
Assistiamo ora, secondo l’Autore, ad un progressivo e deplorevole sovvertimento dei valori vitali.
Ecco una nuova rappresentazione dell’uomo: passivo, col capo chino, obbediente, pervaso da sensi di colpa da espiare, casto sessualmente, quindi represso negli istinti e dipendente da un Dio che lo domina e lo spinge ad auto-annullarsi.
Come siamo arrivati a tutto questo?
Nietzsche, nella “Genealogia della morale” (1887), fornisce questa sottile analisi psicologica.
La classe dei sacerdoti è pervasa da invidia e risentimento (sentimenti analoghi a quelli percepiti dagli dèi dell’antica tragedia greca) verso la classe aristocratica, cioè nei confronti delle persone nobili d’animo.
I sacerdoti hanno affinato il loro intelletto e subdolamente finiscono con il condizionare la morale della società, fino ad averne il predominio.
Il sovvertimento dei valori.
Al corpo si contrappone ora un astratto “spirito”, alla fierezza l’umiltà, alla sessualità la castità, al ridere la serietà, alla potenza dell’azione l’obbedienza passiva, in un totale sovvertimento dei valori: su quelli vitali finiscono col prevalere quelli anti-vitali.
In questo modo si verifica, in ogni uomo, una progressiva repressione degli istinti ed un’alienazione dai sentimenti spontanei e più autentici.
Questo fenomeno alimenta risentimento, invidia, una serie di vissuti deteriori che intossicano l’individuo stesso e la società.
Nietzsche insiste sulla descrizione di quest’uomo malato, auto-tormentato, umiliato, a contatto con un corpo che è diventato peccaminoso, in antitesi con la sua stessa natura.
Quest’uomo, definibile ai nostri tempi come nevrotico, è schiavo dell’intelletto e sembra aver dimenticato la spontaneità del sentimento.
L’uomo moderno sembra la caricatura dell’eroe classico, pervaso com’è da timori di ogni tipo: fobie, insicurezze, ipocondria e continue rimuginazioni.
Dov’è finita la volontà di potenza creativa che pervade l’individuo e lo rende “essere umano”?
La storia dell’Errore alla base della decadenza dell’uomo moderno
Nel “Crepuscolo degli idoli” (1888), Nietzsche descrive “come il mondo vero finì per diventare favola”: ovvero, la storia di un fatale errore filosofico.
Tutto sembra nascere a causa di Platone: nel suo modello filosofico, il “mondo vero” non è il mio mondo, in cui io sto vivendo concretamente nel qui e ora. È invece un ideale astratto, intellegibile solo al filosofo.
Si perde di vista la realtà presente che l’individuo vive e si pone al centro il mondo delle Idee.
Nel Cristianesimo il “mondo vero” si concretizza nel Regno di Dio, nel Paradiso, nell’Aldilà: nei dogmi cristiani è un luogo di beatitudine distinto dal mondo terreno. Per adesso è irraggiungibile, ma è “promesso” al pio, al virtuoso, al peccatore che fa penitenza.
Si insinua un’influenza subdola del sacerdote sull’uomo comune, poiché si introduce l’idea di una doverosa sottomissione del fedele al potere della classe clericale.
Nietzsche è molto critico anche sulla posizione di Kant e sulla sua presunta “verità” assoluta: il “mondo vero” (la “cosa in sè”) è definito da quest’ultimo come un noumeno inconoscibile. Pur essendo indimostrabile, il “mondo vero” per Kant è un ideale cui tendere, come un imperativo morale dettato dalla ragione.
Tale traguardo, però, è così etereo e sfuggente da non indurre motivazioni nell’individuo per aspirare a raggiungerlo.
Eliminiamo il “mondo vero”.
Con il Positivismo si comprende che il “mondo vero”, prosegue Nietzsche, è irraggiungibile: “Perciò nemmeno consolante, salvifico, vincolante: a che cosa potrebbe vincolare qualcosa di sconosciuto?“
Non rimane che un’unica conclusione: “Il ‘mondo vero’ – un’idea che non è più utile a nulla, nemmeno più vincolante, – un’idea divenuta inutile, superflua, quindi un’idea confutata: eliminiamola!“
“Abbiamo eliminato il mondo vero: quale mondo resta? Forse quello apparente?… Ma no! Con il mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!“
E quindi che cosa rimane? Pervasi da una volontà di potenza distruttiva, abbiamo demolito l’intera realtà. Ora non ci è rimasto che il Nulla.
Nietzsche e la “morte di Dio”
Che sentimenti abbiamo a questo punto? Ambivalenti.
Ci siamo risvegliati e abbiamo soppresso la metafisica tradizionale.
“Dio è morto e lo abbiamo ucciso noi“.
All’inizio prevale un generalizzato vissuto di liberazione e di euforia, per aver ucciso quello che era ormai percepito come un tiranno:
“Noi filosofi e spiriti liberi, alla notizia che il vecchio Dio è morto, ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora; il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presagio, d’attesa – finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non è sereno; finalmente possiamo di nuovo sciogliere le vele alle nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo; ogni rischio dell’uomo della conoscenza è di nuovo permesso; il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così “aperto“
(da La gaia scienza, 1882).
Successivamente, è inevitabile provare anche un senso di vuoto, di vertigine, di smarrimento.
Ora dobbiamo fronteggiare da soli il Nulla che si profila all’orizzonte: non abbiamo più un padre a guidarci, nè un maestro o una figura accanto verso cui riporre fiducia.
L’uomo, così com’è, può sostenere la sfida contro il Nulla infinito? No. Siamo di fronte alla rappresentazione di una nuova tragedia, in cui il protagonista deve sostenere una lotta impari contro un Nulla che lo sovrasta.
Per questo “l’uomo è qualcosa che deve essere superato“: deve andare oltre se stesso, diventare Oltre-uomo.
Il soggetto deve scoprire la potenza illimitata della sua volontà.
La nascita dell’Oltre-uomo.
Questo Nietzsche fa dire a Zarathustra:
“L’Oltre-uomo, ecco il vero senso della terra. La vostra volontà quindi dica: l’Oltre-uomo diventi il senso della terra.
Vi scongiuro, o fratelli, siate fedeli alla terra, e non crediate a coloro che vi parlano di speranze ultraterrene!
Essi sono dei manipolatori di veleni, che lo sappiano o no. Sono degli spregiatori della vita, dei moribondi, degli intossicati dei quali la terra è stanca: se ne vadano in pace!
Una volta il peccato contro Dio era il peggior sacrilegio; ma Dio è morto, e perciò sono morti anche questi esseri sacrileghi.
Peccare contro la terra, ecco la cosa piú terribile che si può fare oggi“.
Diventare divino è un’aspirazione immanente a me stesso: è dentro di me, non in un luogo esterno separato.
Divenire Oltre-uomo significa scoprire che non esiste nessuna Trascendenza distinta da me, nessun Aldilà, nè Oltretomba.
Esiste solo il mio personale sentimento di volere arrivare “al-di-là” di me stesso, di “andare oltre” i miei limiti costitutivi, per aspirare all’universalità, fino a fondermi con la realtà in una sintesi armonica.
In questo contesto, i confini limitati del mio corpo e della mia mente si espandono senza limiti, per identificarsi con la volontà di potenza universale.
La personale realizzazione dell’individuo, però, deve partire innanzitutto dal raggiungimento un’intima armonia con il proprio corpo, che poggia sulla Terra, unico “mondo vero”.
Solo da questi presupposti l’uomo potrà sostenere la sfida di sostituire Dio e diventare creatore di una nuova realtà.
Il soggetto e la volontà di potenza
“O risplendente Sole, cosa mai saresti tu, se non ci fossi io, quaggiù, su cui risplendere?“
(Così parlò Zarathustra, 1883).
Il soggetto vuole superare il Nulla attraverso l’affermazione della propria volontà di potenza.
Attraverso essa sono io che scopro la mia appartenenza all’esistenza e sono sempre io che devo conferire il personale significato alla mia vita.
Che cosa si intende per volontà di potenza?
Significa innanzitutto riuscire a percepire un’energia vitale che dia un senso alla mia esistenza, al di là dei concetti convenzionali di bene e di male, di ciò che mi piace e non mi piace.
Nietzsche individua questa energia nel sentimento dell’amore, di sè e del prossimo (che sono un tutt’uno):
“Ciò che viene fatto per amore accade sempre al di là del bene e del male.”
L’amore è un sentimento attivo: consente all’individuo, se lo prova autenticamente, di diventare un vero Creatore.
A questo punto, dopo aver ucciso il vecchio Dio, io mi riscopro in un ruolo divino.
E come posso divenire immortale e creare eternamente la vita?
Arriviamo a quello che per l’Autore è “il pensiero più abissale”, “il peso più grande”.
Nietzsche e l’eterno ritorno
“Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse:
«Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso?
L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere!».
Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato?
Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina» (…)
Quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello?”
(da La gaia scienza).
L’attimo immenso.
Questo “attimo immenso” è cruciale per comprendere il pensiero di Nietzsche: è la chiave per dare un senso alla realtà.
È un presente al di là del tempo cronologico: corrisponde al momento stesso in cui io sto vivendo.
L’ “eterno ritorno dell’uguale” sarebbe difficile da ricondurre ad una nuova metafisica, visto che Nietzsche l’ha sempre combattuta.
È innanzitutto un sentimento, un’aspirazione profonda che l’uomo ha sempre percepito: quella di eternizzarsi e di potersi godere, in modo pieno, il momento presente.
Inoltre é l’Oltre-uomo che decide l’eterno ritorno. Non è quindi un passivo accogliere qualcosa di prestabilito: sono sempre io che decido di vivere questo Attimo Immenso ed eterno, che è la vita cui appartengo e cui voglio appartenere.
In un tempo lineare tradizionale, in cui il traguardo è sempre più in là del presente (fino all’infinito), l’uomo non sarà mai soddisfatto.
Solo se sono immerso in un tempo circolare (al di fuori del meccanismo causa-effetto) io posso godere della mia vita in ogni istante, senza aspettare che la felicità debba avvenire in un presunto momento futuro (magari come ricompensa per qualche mia azione).
L’eterno ritorno (e, più in generale, il sentimento umano di eternizzarsi) si trova al di fuori delle categorie di spazio, tempo e causalità, che sono i presupposti di ogni esperienza umana contingente (secondo Kant e Schopenhauer).
Volere ciò che accade.
L’Oltre-uomo esprime la volontà di aderire pienamente all’ordine universale, attraverso il suo libero sì alla vita.
A questo punto non vi è più distinzione tra la mia volontà di potenza e quella dell’universo.
Nietzsche dichiara infatti:
“La mia formula per giudicare la grandezza dell’uomo è amor fati: cioè, non volere che le cose siano diverse, che non sfuggano né avanti, né indietro, per tutta l’eternità.
Non soltanto sopportare il Necessario, e ancor meno nasconderlo (ogni idealismo è menzogna di fronte al Necessario); bensì amarlo“
(da Ecce homo, 1888).
Gli sviluppi del pensiero di Nietzsche in psicoterapia
Il concetto di “volontà di potenza” influenza fin dall’inizio la psicoanalisi ed il pensiero del suo fondatore.
Freud sostanzialmente conferma quello che sostiene il filosofo tedesco.
La descrizione dell’uomo occidentale da parte di Nietzsche corrisponde a quella del nevrotico.
Un uomo che, anche quando materialmente benestante, si mantiene represso nella libertà dei suoi istinti naturali, irascibile e tormentato da sensi di colpa per la sotterranea percezione della sua aggressività, repressa o rimossa.
Si crea un circolo vizioso: siamo di fronte ad un uomo psichicamente disturbato, che prova vergogna ed umiliazione per le sue manchevolezze, per il suo corpo diventato peccato e non più espressione della sua volontà di vivere.
E questo è, a sua volta, causa ed espressione di un’aggressività generalizzata, individuale e sociale, che alimenta infelicità e bassa autostima.
Gli individui del mondo occidentale si professano genericamente cristiani. Mentre il messaggio originario di Gesù è di amore e fratellanza, il pianeta è però scenario di guerre, tragedie, odio individuale e collettivo verso altre persone e popoli.
L’odio si può manifestare esplicitamente, ma anche subdolamente in ognuno di noi, attraverso risentimento, invidia, insoddisfazione, irritabilità.
L’uomo moderno ha perso non solo la volontà di potenza, ma anche la consapevolezza di sè. Freud intende consentire all’individuo di riscoprire se stesso, come soggetto attivo.
La ricerca di un risveglio della volontà di potenza del soggetto
Il fondatore della psicoanalisi, non a caso, afferma: “Dove c’era l’Es, deve subentrare l’Io” – ovvero un nuovo essere umano, in grado di riaffermare la sua spontaneità ed il suo volere consapevole.
In questo contesto, la sfida forse più ardua è quella di percepire l’autentico sentimento di amore per il prossimo, senza ipocrisie.
Occorre distinguere l’amore da due entità ingannevoli:
- Da un lato, l’istinto del piacere e del suo soddisfacimento.
- Dall’altro, la subdola volontà di occuparsi dell’altro per controllarlo, per utilizzarlo come una cosa, con l’intento di sfogare un malcelato risentimento verso la vita.
La necessità di percepire i sentimenti in modo dialettico.
In una prospettiva psicologica dialettica, i sentimenti di fierezza e di amor proprio vanno distinti dall’orgoglio personale e dall’egoismo (anche se i confini possono essere molto sfumati). Quest’ultimi sono vissuti deteriori di un individuo che intende dominare e sopraffare l’altro, anziché condividere con il prossimo una crescita personale.
La fierezza può portare il soggetto anche a scontrarsi dialetticamente con l’altro (momento della “inimicizia” e della “guerra”, secondo Nietzsche).
Al termine di un confronto leale, tuttavia, entrambi i contendenti ne usciranno arricchiti. In questo senso è vero che “quello che non mi uccide mi rende più forte”.
Troviamo in Nietzsche anche un’interpretazione in chiave psicologica della Storia umana, che aiuta a comprendere le parallele fasi dell’evoluzione della personalità del singolo individuo (come già affermato, in passato, da G. Vico).
L’uomo moderno sembra aver raggiunto la maggiore età e la consapevolezza di non aver bisogno di false certezze rassicuranti, come Dio e l’Aldilà.
Deve però ora conferire un senso all’esistenza per fronteggiare la disperazione.
La soluzione è dentro di me e non nell’esteriorità naturale.
Nel mondo esterno troverò innanzitutto caos, irrazionalità, materia che si degrada nel tempo e si decompone.
Tutto questo non ha senso in sè.
Sono io a voler conferire un senso alla mia vita, che sta nel vivere stesso, espressione della volontà di potenza universale.
Nietzsche afferma che non è importante che cosa accade nella vita, ma come si vive, ovvero l’atteggiamento che si ha nei confronti dell’esistenza:
“Tutte le vite sono difficili: ciò che rende certe vite riuscite è il modo in cui sono state affrontate le sofferenze“.
Se abbraccio la vita e mi apro ad essa, mi esporrò ad ogni tipo di sofferenza, ma come risultato finale avrò a disposizione la mia esistenza, davvero unica e irripetibile.
Il sentimento di piena appartenenza alla vita equivale alla beatitudine ed alla realizzazione di sè.
Nietzsche, la volontà di potenza e l’analisi esistenziale
Citiamo ora Medard Boss e Viktor Frankl, due dei principali esponenti della psicoterapia analitica esistenziale: essi sono tra gli autori che hanno ispirato il metodo della nostra Scuola di Psicoterapia Dialettica ed hanno anche sviluppato alcune delle grandi intuizioni di Nietzsche.
M. Boss (1903-1990) pone al centro della psicoterapia non “che cosa” il paziente ha vissuto, ma “come” egli si pone nella sua esperienza di Esserci: ovvero di essere presente in questo preciso momento, con la sua volontà di esistere e di potere.
La vita psichica è caratterizzata da un’incessante dialettica: essa nasce dalla storia personale del paziente, ma si realizza in modo attuale solo nel qui ed ora, nella relazione viva tra paziente e terapeuta. Questo è il “mondo vero”.
V. Frankl (1905-1997) definisce il suo metodo di cura “logoterapia”, ovvero una cura che si basa sul ritrovamento di un senso esistenziale: quando l’uomo riesce a conferire un autentico e personale significato alla sua vita, può superare qualunque ostacolo, grazie alla sua forza di volontà.
A tale proposito Frankl cita espressamente il seguente aforisma di Nietzsche:
“Chi ha un perchè abbastanza forte, può superare qualsiasi come“.
Conclusioni
La personale esperienza di dolore e di malattia di Nietzsche ha senza dubbio conferito autenticità alla sua opera. Egli ha incarnato la figura dell’uomo che ha vissuto una sofferenza in prima persona, non solo studiata sui libri di testo.
Nietzsche è quindi riuscito a trasformare, nei suoi testi, le energie negative in una spinta creativa straordinaria.
Anche a costo di scontrarsi con i limiti del suo corpo e di divenire folle.
Lo stesso disturbo mentale tuttavia ha un senso, che va sempre ricercato nell’esperienza di vita di ogni singolo paziente, al di fuori di facili etichettamenti.
Altrimenti si rischia di fare la pessima figura dello psichiatra manicomiale indicato ad inizio articolo.
È invece fondamentale una sospensione di ogni giudizio e pregiudizio sul prossimo.
A questo sembra alludere Nietzsche stesso quando afferma:
“Imparare a vedere – abituare l’occhio alla calma, alla pazienza, al lasciare giungere a sè le cose; rimandare il giudizio, imparare a rigirare e ad abbracciare il singolo caso da ogni lato.
È questa la prima lezione alla nobiltà d’animo: non reagire subito ad uno stimolo, ma padroneggiare gli istinti che inibiscono, che isolano.
Imparare a vedere, così come l’intendo io, è all’incirca ciò che il linguaggio non filosofico chiama forte volontà: l’essenziale in esso è appunto non volere, ma saper sospendere il giudizio”
(da Umano, troppo umano, 1878).
Volontà di potenza significa, quindi, essere anche capaci di inibire se stessi: non reagire, rinunciare agli impulsi egoistici ed agire consapevolmente, con la mente libera da pregiudizi.
Ispirandoci al contributo di Nietzsche, cerchiamo di costruire una nuova tavola dei valori “sani” e vitali:
- Amore verso di sè con apertura verso l’altro, che rappresenta un altro me stesso.
- Atteggiamento determinato ad affrontare e tollerare la sofferenza.
- Comprensione dell’altro con sospensione del giudizio.
- Lealtà e gratitudine nella relazione col prossimo.
Ad essi corrispondono, dialetticamente, i fattori deteriori della nostra personalità, da fronteggiare e superare:
- Affettività negativa verso di sè (che si riflette in invidia e risentimento verso gli altri).
- Evitamento della sofferenza tramite un distacco intellettualizzato.
- Attenzione che si ripiega verso se stessi, chiusura al confronto col prossimo, manipolazione dell’altro, etichettamento altrui tramite pregiudizi stereotipati.
- Ingratitudine e slealtà verso gli altri.
Tutto questo porta alla costruzione di una realtà distorta ed al rischio di una deriva psicotica.
Quando la volontà di potenza non fluisce ma si ripiega in se stessa, si trasforma in psicopatologia.
I termini indicati sono simili ai criteri di personalità sana e disturbata dei sistemi diagnostici contemporanei. Si veda ad esempio il nuovo modello di personalità proposto dal DSM-5, nella Sezione III.
Al di là degli schemi di riferimento, è ovunque riconoscibile la volontà umana di affrontare i lati problematici dell’esistenza, di trascenderli e di aspirare all’universalità.
Per ulteriori approfondimenti, si consiglia il seguente video: https://www.youtube.com/watch?v=kyvU9KpIBqs
Schopenhauer e la psicologia: “Il mondo è la mia rappresentazione”.
Heidegger e la psicologia: la ricerca di un significato ai sentimenti umani.
Una opinione su "Nietzsche e la volontà di potenza: le sue influenze in psicologia e in psicopatologia."