Il suicidio come sintomo di una patologia psichiatrica e come problema esistenziale.

Introduzione

Nell’assistenza a casi clinici di interesse psichiatrico o psicologico è inevitabile assistere a situazioni di crisi da parte del paziente, in cui intiuiamo anche un suo rischio di suicidio. La sofferenza emotiva del nostro assistito può essere causa di interruzione delle cure, o peggio, della vita. Oppure, paradossalmente, la crisi può essere un’occasione di maturazione, di presa di coscienza dei suoi limiti, ma anche degli strumenti per superarli.

E’ essenziale affrontare apertamente ogni problematica psichica acuta nell’attualità del momento presente. A maggior ragione se percepiamo, nel nostro paziente, l’intensificarsi di emozioni e pensieri concernenti il significato della vita e l’inutilità dell’esistenza.

Psicologia della spiegazione e della comprensione: qual è più adatta nel singolo caso?

Una valutazione del rischio suicidario è sempre essenziale nelle situazioni di crisi. E’ imprescindibile, a questo proposito, una corretta diagnosi psicopatologica differenziale: dovremo valutare in che misura il pensiero di suicidio è sintomo di una psicosi acuta o di un grave disturbo dell’umore (siamo nel campo della psicopatologia della spiegazione).

A volte assisteremo, invece, a casi un cui il soggetto non ha una malattia psichiatrica in senso stretto. Può presentare piuttosto una grave condizione di sofferenza interiore comprensibile alla luce della sua storia personale, anche in analogia con la nostra esperienza vissuta (psicopatologia della comprensione).

Le patologie psichiatriche ad alto rischio di suicidio.

Tra i casi di psicosi acuta e di schizofrenia, particolarmente a rischio sono i comportamenti del soggetto che presenta allucinazioni imperative. Sono esperienze psichiche pervasive ed insopportabili, in cui il soggetto sembra perdere ogni capacità di autonomia. Si sente un passivo strumento di “voci” che gli ordinano azioni, compresa quella di togliersi la vita.

Tra i disturbi dell’umore acuti, gli stati più a rischio sono notoriamente quelli “misti”, in cui depressione e mania coesistono. Il paziente può pensare come un depresso ma agire con la forza di un maniacale, con conseguenti comportamenti pericolosi per la propria incolumità.

Questi casi psicopatologici necessitano di un intervento specialistico urgente e della somministrazione di terapie psicofarmacologiche adeguate a ridurre il rischio suicidario. E’ nota l’efficacia della clozapina nel ridurre i comportamenti autolesivi nella schizofrenia, così come quella del litio nel ridurre il rischio suicidiario nel disturbo bipolare.

Il problema del suicidio nei disturbi di personalità. 

Una psicoterapia ha indicazione soprattutto nel caso di pazienti che non tendono a presentare fenomeni dispercettivi o alterazioni acute degli istinti vitali, ma che pongono alla nostra attenzione stati d’animo caratteristici di ognuno di noi. Questi sono vissuti però con particolare drammaticità e coinvolgimento dal singolo individuo che si rivolge al terapeuta.

Situazioni di crisi (a volte slatentizzate da episodi sfavorevoli nella vita quotidiana) possono causare l’irruzione di sentimenti esistenziali difficili da padroneggiare individualmente: angoscia, perdita di un senso da conferire alla vita, vissuti di alienazione e di depersonalizzazione. Ci sentiamo privati della spontaneità e dell’intenzionalità che caratterizza l’essere umano, senza strumenti per padroneggiare la situazione da soli.

In questo contesto, un arresto di un dialogo interiore può portare a comportamenti deliberatamente auto-aggressivi e ad alto rischio di letalità. In altre occasioni possiamo essere, invece, di fronte ad un individuo molto sofferente, che tuttavia non rinuncia ad esprimersi, condividendo apertamente i propri sentimenti, pensieri ed intenzioni.

Come relazionarsi ad un paziente che verbalizza idee di morte? 

Nelle situazioni di rischio suicidario concreto ed attuale, preservare l’incolumità dell’individuo ha la priorità (quindi è opportuno un ricovero urgente). Tuttavia vi sono anche casi sfumati e subdoli, in cui il paziente non ha un’intenzione immediata di morire, ma verbalizza il pensiero che sarebbe meglio “non soffrire più”, “scomparire”, “dormire senza risvegliarsi”. Questi vissuti non possono essere trascurati.

In futuro la ricerca neuroscientifica potrà indicarci con sempre maggior precisione i correlati biochimici dei comportamenti a rischio dei pazienti, individuando terapie farmacologiche sempre più efficaci per prevenire il suicidio.

Riteniamo tuttavia che scienze come la psicopatologia e la psicoterapia non possano essere interamente ridotte al naturalismo biologico. Essendo universali le tematiche relative all’esistenza ed alla morte, è necessaria un’integrazione con le scienze umane (come la filosofia e la letteratura). Esse ci consentono di cogliere e di comprendere in modo più spontaneo i sentimenti del paziente.

La costruzione di una solida alleanza terapeutica è la migliore base per salvaguardare il benessere psicologico e l’incolumità fisica del nostro assistito.

A proposito di scienze umane, può essere utile la riscoperta della seguente opera di G. Leopardi.

Il tema del suicidio in letteratura: Giacomo Leopardi e il Dialogo di Plotino e Porfirio (1827).

Il pensiero di Leopardi, come noto, è pervaso da un pessimismo universale, incentrato sui sentimenti di sofferenza esistenziale e di frustrazione per il “tradimento” della Natura: essa è un’entità ingannevole che illude l’individuo con un’immagine attraente del mondo, dietro la quale sembra nascondersi un destino crudele di dolore per ogni essere vivente.

Su questi presupposti logici, l’Autore si interroga sul significato della vita: è ragionevole o no porre deliberatamente fine alla propria esistenza? Il suo dialogo interiore assume le sembianze di due personaggi, che in quest’opera si confrontano liberamente sull’argomento.

Ancora prima di parlare con il suo allievo, il maestro Plotino (che potrebbe, in chiave moderna, rappresentare la figura del terapeuta) percepisce dalla comunicazione non verbale che Porfirio è divenuto cupo, sfuggente, allusivo.

Un segnale di rischio suicidario è un cambiamento recente dell’atteggiamento del soggetto.

Il paziente che sta maturando un’intenzione di suicidio diviene spesso più chiuso in sè, talora irritabile, privo di uno spontaneo contatto visivo (immerso com’è nei suoi propositi autodistruttivi). Arriva infine ad assumere l’apparente tranquillità di chi ha preso una decisione estrema: condizione che tuttavia non comunica serenità a chi conosce l’individuo, ma un pericolo imminente.

Plotino coglie i sentimenti di disperazione di Porfirio a livello intuitivo, attraverso la relazione di amicizia che lo lega all’allievo.

“Porfirio, tu sai ch’io ti sono amico; e sai quanto: e non ti dèi maravigliare se io vengo osservando i tuoi fatti e i tuoi detti e il tuo stato con una certa curiositá; perché nasce da questo, che tu mi stai sul cuore. Già sono più giorni che io ti veggo tristo e pensieroso molto; hai una certa guardatura, e lasci andare certe parole: in fine, senza altri preamboli e senza aggiramenti, io credo che tu abbi in capo una mala intenzione”.

Il maestro Plotino vuole affrontare apertamente con Porfirio il tema del suicidio, senza ipocriti eufemismi e senza nascondere la propria vicinanza emotiva. Si esprime con un misto tra viva preoccupazione e rispetto per le intenzioni dell’amico-discepolo.

Coinvolgimento o distacco col paziente suicidario?

In ambito psicoterapeutico potremmo discutere se un eccessivo coinvolgimento del curante possa essere o meno controproducente. Senza dubbio, tuttavia, quando si affrontano temi critici e cruciali dal punto di vista esistenziale (come la vita e l’incolumità di una persona) è fuori luogo presentarsi in modo freddo e distaccato.

Sembra ovvio, ma in passato non era così. Lo psicoanalista ortodosso delle origini tendeva ad assumere un atteggiamento volutamente indifferente, anche nel paziente a rischio della propria vita.

L’analista si limitava a registrare e ad interpretare parole ed atteggiamenti del paziente, quasi come se quest’ultimo fosse la cavia di un esperimento scientifico. Il suicidio era considerato un comportamento da analizzare come tutti gli altri, senza tentativi diretti di impedirlo da parte del terapeuta. Un esempio significativo è descritto ne “Il caso Ellen West” di L. Binswanger.

Una partecipazione emotiva del curante è invece essenziale nella relazione terapeutica. E’ naturale, in certe situazioni, esprimere un’autentica preoccupazione.

Il sentimento di empatia è alla base di una concreta comprensione dell’altro.

L’empatia è l’analogia immediata che stabilisco con la mia esperienza di essere umano.

In ambito psicoterapeutico, espressioni come “tu mi stai sul cuore” (che il maestro utilizza nel Dialogo sopra citato) possono essere anche non rese esplicite a parole. Basta che restino immanenti all’atteggiamento del curante. L’affetto per il paziente si può comunicare anche attraverso la mimica, il tono della voce e la piena immedesimazione nel momento presente che il nostro assistito ha scelto di condividere con noi.

Il paziente sa quando ci stiamo dedicando con totale attenzione e partecipazione a lui.

La conversazione che segue, nel testo di Leopardi, è l’esemplificazione di un’autentica dialettica tra i due interlocutori. Essi non sono convinti di avere in mano una verità assoluta e non appaiono interessati a far prevalere la propria posizione su quella altrui. Plotino avrebbe un ruolo di guida nei confronti del discepolo, ma non intende esercitarlo per una persuasione forzata (e quindi poco funzionale).

Gli argomenti razionali sono utili per dissuadere il paziente dal suicidio?

Nello svolgimento del Dialogo di Leopardi, il maestro utilizza inizialmente argomenti razionali, logicamente corretti ma astratti, contro il suicidio. Ricorda al discepolo la dottrina religiosa condivisa (che vieta all’individuo di togliersi la vita) e richiama l’idea filosofica del suicidio come “gesto contro natura”.

Come tutti i discorsi su base intellettuale, questi argomenti sono facilmente confutabili dall’allievo Porfirio. Quest’ultimo demolisce tutte le argomentazioni razionali del maestro facendo semplicemente riferimento all’intollerabile sentimento di noia. E’ un vissuto pervasivo nella vita dello stesso Leopardi; a volte sembra la radice di ogni sofferenza umana.

Afferma l’allievo: “A me pare che la noia stessa, e il ritrovarsi privo di ogni speranza di stato e di fortuna migliore, sieno cause bastanti a ingenerar desiderio di finir la vita, anco a chi si trova in fortuna”.

Il suicidio come tentativo di fuggire da una noia opprimente e priva di senso.

La noia è un sentimento che accompagna tutta l’umanità. Anzi, più l’individuo è “fortunato”, trovandosi in buone condizioni di salute e in un ambiente favorevole, più è in condizione di fermarsi a pensare sul significato della vita. Proprio in questo contesto, il soggetto può esporsi a provare vissuti di vuoto interiore e di inutilità della sua esistenza.

Non a caso i tassi di suicidio sono generalmente più elevati nei Paesi benestanti rispetto a quelli in via di sviluppo.

La noia corrisponde ad un vissuto di alienazione, in cui io non riconosco alcuna appartenenza al mondo esterno, che sembra dominarmi con il suo ordine immutabile, rendermi un suo passivo strumento ed essere indifferente alla mia esistenza.

La noia è un vuoto, un “nulla” che paradossalmente mi opprime e che può dar luogo a rabbia ed angoscia. Spesso questi stati d’animo si esprimono in una sensazione di costante oppressione alla gola o al petto. Questo male subdolo può arrivare anche ad intensità intollerabili. Che senso ha vivere in queste condizioni? A volte appare estremamente arduo trovare obiezioni al suicidio, sul piano unicamente razionale.

In qualunque contesto ed epoca ci troviamo, difficilmente riusciremmo a convincere un paziente a non suicidarsi citando unicamente massime di saggezza predefinite: esse arrivano all’intelletto dell’interlocutore, ma non alla sua interiorità.

Un potente antidoto al suicidio: la condivisione dell’esperienza di esseri umani, anche nella sofferenza.

Un soggetto che percepisca i suoi sentimenti autenticamente compresi ed accolti da un’altra persona, può ritrovare un senso di appartenenza al mondo che lo circonda e la speranza di poter condividere un peso che sarebbe intollerabile individualmente. Può passare, dialetticamente, da uno stato di alienazione ad una condizione di reintegrazione dei sentimenti in se stesso, vissuti ora in modo attivo e problematico (anzichè con passiva rassegnazione).

Per questo, all’interno di un autentico dialogo tra due persone (che possono essere terapeuta e paziente) non resta che abbandonare le astratte logiche dell’intelletto ed affidarsi a quello che più ci accomuna: il sentimento di voler condividere con dignità e compassione la nostra condizione di essere umani.

A questo sembra accennare il maestro Plotino quando è costretto ad ammettere la sconfitta delle sue logiche anti-suicidio, ma afferma:

Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo; e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno e ci ameranno ancora.

Liberarsi dalla trappola del proprio isolamento è il primo strumento per sconfiggere l’intenzione di togliersi la vita.

Trasformando la sofferenza in un mezzo per legarsi al prossimo, possiamo superare i vissuti di annichilimento personale, noia, rabbia e disperazione. Questi stati d’animo sono più dolorosi della morte stessa.

I “warning signs” del paziente a rischio di suicidio.

La perdita di senso da conferire all’esistenza, insieme al sentirsi in trappola, in una condizione generale di perdita di speranza, ansia, rabbia e ritiro sociale, sono tuttora i segni di maggiore rischio suicidario riconosciuti dall’American Association of Suicidology, oltre all’esplicita dichiarazione di togliersi la vita da parte del paziente, che tuttavia necessita di una solida alleanza terapeutica per essere verbalizzata.

L’acronimo “IS PATH WARM?” è molto utile per ricordarsi di tutte le domande da fare al paziente, per sondare il rischio suicidario attuale. Vedi anche https://suicidology.org/resources/warning-signs/.

Possiamo aggiungere dal contributo della nostra Scuola di psicoterapia che, dialetticamente, l’atto di porre fine alla propria vita deve sempre presupporre anche la presenza di vissuti antitetici nel soggetto. Ovvero di una profonda identificazione con un ideale di esistenza, tanto forte quanto al momento irrealizzabile. Si tratta, in fondo, di un inconfessato “amore non corrisposto” per la vita, cui però possiamo dare un’altra occasione, se abbiamo la forza di riprendere un dialogo interrotto con noi stessi.

I sentimenti di compassione universale e di accettazione del dolore.

La poesia di Leopardi è l’esempio di un amore infelice per la vita, da cui tuttavia nascono opere d’arte per cui vale la pena soffrire. Solo un poeta della sua sensibilità poteva descrivere con tanta capacità suggestiva, ad esempio, le bellezze di una campagna in primavera, le emozioni della gente alla vigilia di una festa, oppure le aspettative tradite di un’adolescente che vorrebbe realizzare se stessa una volta raggiunta l’età adulta.

La straordinaria capacità di immedesimazione nel sentimento umano rende Leopardi un inconsapevole precursore della psicologia umanistica.

Egli, in una delle sue ultime liriche, rappresenta nella ginestra il simbolo di una forma di vita davvero degna di essere ricordata: è un fiore che nasce in una terra desolata, dopo un disastro naturale, e consola con il suo profumo qualunque essere si avvicini, senza distinzioni; accetta inoltre che il suo destino sarà di scomparire quando sarà il momento, ma senza ostilità nè illusioni, piegando dolcemente il capo una sola volta.

Parafrasi dell’epilogo de “La ginestra, o il fiore del deserto”, 1836.

E piegherai il tuo capo innocente

sotto quel peso distruttore;

ma quel capo non lo avevi, invano, piegato prima di allora,

in una vigliacca supplica di fronte all’imminente oppressore;

e neppure lo avevi innalzato al cielo, con orgoglio superbo,

nè lo avevi alzato sul deserto,

dove sei nata e hai vissuto, non per tua scelta ma per volere del caso;

ma sei più saggia e molto meno inferma dell’uomo

in quanto non hai creduto che la tua fragile natura

sia stata creata immortale dal destino o da se stessa.

La psicoterapia come strumento di “risveglio” dell’Io.

Anche se il paziente (ma talora chiunque di noi) ha la sensazione di essere stato generato dal caso e che la vita non abbia alcun senso, non dobbiamo dimenticare che questa è una comune e transitoria posizione del sentimento umano (momento dell’alienazione).

Dialetticamente, questo punto di vista evolverà in modo naturale (non sappiamo con quali tempi) nel momento della reintegrazione: come in una sorta di risveglio interiore, mi rendo conto che sono io ad aver rappresentato tale scenario pessimistico (il mondo come malvagia entità o come realtà indifferente) e che modificando il mio punto di vista, anche la realtà assumerà una nuova forma esteriore. Si tratta di seguire gli insegnamenti di Schopenhauer, autore affine a Leopardi che, pur nel suo estremo pessimismo, riesce infine a trovare le vie che conducono alla liberazione dal dolore.

Compito dello psicoterapeuta è quello di agevolare il naturale movimento dialettico del nostro pensiero, comprendendo e condividendo i sentimenti universali del paziente anche nei momenti più drammatici, sulla base della comune esperienza di esseri umani.

Vedi anche: una rilettura de “Il caso Ellen West” di L. Binswanger

La logoterapia di V. Frankl: la sofferenza umana ha un senso?

Una opinione su "Il suicidio come sintomo di una patologia psichiatrica e come problema esistenziale."

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