“Il caso Ellen West” di Binswanger: cosa NON fare in psichiatria.

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Ludwig Binswanger (1881-1966) è celebre per la sua grande onestà intellettuale: tra le sue opere principali vi è “Il caso Ellen West”, ovvero la storia di un suo evidente fallimento nella valutazione e gestione di una paziente di interesse psichiatrico.

Questo non toglie che Binswanger sia stato uno degli autori più influenti ed apprezzati nel campo della psichiatria e della psicoterapia del secolo scorso. Egli è noto per aver tradotto in termini psicopatologici la visione di Heidegger relativa all’esistenza umana.

Dalla lettura di questo testo possiamo prendere contatto anche con una preoccupazione tuttora presente nella vita di qualsiasi psichiatra: quella di dimettere da un reparto ospedaliero un paziente non ancora in compenso, con il rischio di un suo suicidio nei giorni successivi.

La storia di Ellen West

Ellen West viene ricoverata nella Clinica psichiatrica “Bellevue”, diretta da Binswanger, all’età di 33 anni.

Dall’anamnesi familiare colpisce soprattutto la familiarità per disturbi dell’umore e per il suicidio: dei cinque fratelli del padre, due di essi si sono suicidati, uno dei quali durante un episodio melanconico. Una zia paterna avrebbe inoltre sofferto di un disturbo mentale non specificato, mentre la bisnonna paterna sarebbe stata affetta da una grave forma di malattia maniaco-depressiva.

Ellen sarebbe stata – racconta Binswanger – una bambina “vivacissima, ma ostinata e violenta”. Dietro questo comportamento inquieto e spesso ostile, Ellen celava uno stato d’animo depressivo: “fin da bambina trascorreva intere giornate in cui tutto le appariva vuoto e soffriva di un’oppressione a lei stessa incomprensibile”.

A scuola è perfezionista e molto ambiziosa. In adolescenza sviluppa buone capacità letterarie: le sue poesie sono incentrate sulla vana ricerca di un senso all’esistenza umana.

Si dedica quindi all’equitazione con intensità abnorme, fino all’autolesionismo. Dopo essersi procurata una frattura alla clavicola durante una corsa imprudente a cavallo, si rammarica di non essere morta.

Nella prima età adulta si evidenzia un’instabilità dell’umore che la accompagnerà durante l’intera esistenza.

Gioia di vivere alternata ad angoscia esistenziale.

A vent’anni – scrive Binswanger – Ellen è felice, colma di attese e di speranze. Dalle sue poesie trabocca una limpida gioia di vivere, un esuberante giubilo vitale. (…) Nelle sue vene irrompe e spumeggia il sangue, il piacere di essere giovane le fa scoppiare il cuore di gioia”.

Questi sentimenti di adesione alla vita si alternano, nel suo diario personale, a vissuti di inquietudine, di autosvalutazione e di pessimismo sulle possibilità di realizzare i suoi ideali perfezionistici di affermazione, nel lavoro e nella società.

A quasi 21 anni, durante un viaggio in Sicilia, insorge “un’angoscia ben determinata”, quella di ingrassare. Essa nasce, apparentemente, dall’essere stata oggetto di battute di alcune coetanee per via del suo sovrappeso.

Inizia quindi “a mortificarsi digiunando e compiendo passeggiate esageratamente lunghe”.

La sua perdita di peso diventa di entità tale che “quando torna a casa, in primavera, il suo aspetto spaventa tutti”.

La morte come una nobile signora.

Nell’estate successiva, pervasa da un costante stato di inquietudine, inizia a pensare alla morte “come una nobile signora”, dotata di un grigio fascino. Ellen West scrive nel diario:

Se lei, la grande amica, la morte, ancora a lungo si farà attendere, mi metterò in cammino e andrò io a cercarla“.

Si alternano quindi, negli anni successivi, brevi periodi di apparente stabilità emotiva e lunghe fasi in cui Ellen è pervasa da angoscia, malinconia, talora apparente indifferenza.

La ragazza trova un parziale sollievo nel descrivere questi stati d’animo nel suo diario, con viva partecipazione affettiva. Persistono distorsioni dell’immagine corporea con timori di ingrassare, fino all’abuso di ormoni tiroidei nel tentativo di mantenere il peso nella norma.

A 28 anni sposa il cugino (non sappiamo se il matrimonio fosse da lei desiderato o organizzato dalla famiglia).

Spera che la vita coniugale possa distoglierla dall’ “idea fissa” di essere grassa e sgradevole, ma questo non avviene. Va incontro, pochi mesi dopo le nozze, ad un aborto spontaneo, forse slatentizzato dalla malnutrizione e da un’eccessiva attività fisica.

Ellen West e la psicoanalisi

A 32 anni, persistendo il disagio emotivo polarizzato sul corpo e le alterazioni del comportamento alimentare (pesa 42 kg, “ridotta a uno scheletro”), Ellen West si sottopone per la prima volta ad una terapia psicoanalitica.

Lo psicoterapeuta è di ispirazione freudiana. Egli interpreta le restrizioni alimentari di Ellen come il suo tentativo inconscio di “soggiogare tutte le altre persone”.

La paziente razionalmente concorda con la visione dell’analista, ma non trae benefici sul piano emotivo e terapeutico da questa constatazione.

Anzi, nota Binswanger: “Nel periodo in cui si sottopone all’analisi, Ellen riduce sempre più il cibo, i sentimenti d’angoscia si fanno sempre più frequenti e, soprattutto, compare ora la molesta coazione a dover pensare continuamente al cibo“. Dopo 6 mesi, Ellen abbandona il trattamento psicoanalitico.

All’età di 33 anni, in seguito al peggiorare delle sue condizioni di salute psicofisica per la restrizione alimentare, Ellen decide di rivolgersi ad un secondo psicoanalista, freudiano ortodosso.

Azioni anti-terapeutiche inqualificabili dello psicoanalista.

Lo psicoanalista consiglia al marito di lasciare temporaneamente Ellen, dopo che quest’ultima aveva verbalizzato propositi suicidari.

Poco tempo dopo, la paziente effettua un’assunzione incongrua di un sedativo (56 compresse di Somniacetin, in gran parte per fortuna vomitate nel corso della notte) e, sopravvissuta all’evento, riferisce l’accaduto al terapeuta.

Secondo quando riportato da Binswanger, tuttavia, “lo psicoanalista non attribuisce alcuna importanza all’evento e prosegue l’analisi”.

Un mese dopo, Ellen West mette in atto il secondo tentativo di suicidio, con modalità analoghe al precedente.

Sopravvissuta anche a questo evento, la paziente si reca in seduta il giorno seguente, come programmato.

Lo psicoanalista si limita ad etichettare la condizione psichica della paziente come “stato crepuscolare isterico”.

Dopo altri due tentativi di suicidio ravvicinati nei giorni successivi, Ellen viene infine ricoverata, in compagnia del marito, in una Clinica di medicina interna.

Durante questo ricovero, nel corso del quale lo stato psichico tende lentamente a migliorare, la paziente ripercorre nel diario la seconda esperienza psicoanalitica.

Interpretazioni forzate e fuorvianti.

Il terapeuta aveva interpretato i comportamenti di Ellen West alla luce di un presunto conflitto relativo all’ “erotismo anale” e ad un “complesso del padre” (quest’ultimo affrontato solo marginalmente per le resistenze della paziente). Ellen appariva insoddisfatta di queste spiegazioni.
Scrive nel suo diario:

“Il rapporto erotico-anale è mera teoria. Mi è del tutto incomprensibile. Assolutamente io non mi capisco. È terribile non capire se stessi. Io sto di fronte a me stessa come di fronte a un estraneo“.

E ancora:

Analizzavo l’intelletto, e tutto restava mera teoria. Il desiderio di esser magra rimase immutabile al centro dei miei pensieri“.

Nella relazione inviata a Binswanger da questo analista, quest’ultimo esprime la convinzione che Ellen West fosse affetta da una “grave nevrosi coatta”. Riteneva inoltre la sua depressione “fortemente e tendenziosamente amplificata”. Dal momento che il padre avrebbe mostrato comprensione per lo stato depressivo della paziente, quest’ultima avrebbe trovato un vantaggio secondario dall’apparire in tale stato.

L’analista conclude che la Ellen West sarebbe “in via di guarigione”, suscitando lo stupore dello stesso Binswanger.

L’atteggiamento di cura del medico internista.

Il medico interno che prende in cura Ellen in ospedale, pur non avendo una formazione psicoterapeutica, mostra invece una sensibilità significativamente superiore a quella dei due psicoanalisti consultati.

Sensibilità che nasce, presumibilmente, dalla quotidiana esperienza concreta con la sofferenza delle persone ricoverate.

L’internista coglie la gravità dello stato psicofisico della paziente, finisce col proibire la prosecuzione delle sedute di psicoanalisi e propone, nel lungo termine, il trasferimento di Ellen nella casa di cura psichiatrica “Bellevue” diretta da Binswanger.

Prima del ricovero psichiatrico, la paziente viene valutata in consulenza da Kraepelin: egli diagnostica alla paziente una melanconia, giudicando dipendenti da essa i sintomi ossessivi e la polarizzazione sul cibo. Viene contestata, quindi, in modo radicale la diagnosi del secondo psicoanalista.

L’internista quindi invia a Binswanger una relazione clinica sulla paziente durante il suo trasferimento.

Riconosce a quest’ultima una “intelligenza fuori dal comune”, nonostante sia in balìa di sentimenti contrastanti relativi all’impulso di mangiare ed al timore di ingrassare.

Pone quindi al centro del problema “una gravissima depressione ciclotimica con episodi di recrudescenza circa ogni mese, intensi sentimenti di angoscia e, a volte, idee di suicidio”.

Il ricovero psichiatrico nella Clinica di Bellevue

Ellen West resta ricoverata in questa Clinica per circa due mesi e mezzo. Durante la degenza il quadro clinico resta stazionario: la paziente tende a presentare un “contegno amabile e socievole”, ma evidenzia una disposizione d’animo caratterizzata da “disperazione senza limiti”.

Binswanger sembra preoccupato, in particolare, dai sentimenti di depersonalizzazione e di rassegnazione della paziente, che afferma:

“Mi sento passiva quanto la scena in cui si lanciano due forze nemiche”.

Dopo oltre due mesi di ricovero infruttuoso, Binswanger si avvale della consulenza di E. Bleuler e di un altro psichiatra straniero (il cui nome non è citato), per un più corretto inquadramento diagnostico.

Bleuler condivide la diagnosi di Binswanger di una “psicosi schizofrenica con andamento progressivo (“schizophrenia simplex”), mentre lo psichiatra straniero propende per una “costituzione psicopatica a sviluppo progressivo” (diagnosi paragonabile, ai nostri tempi, a quella di un grave disturbo di personalità).

Convinto della diagnosi di una schizofrenia a prognosi sfavorevole, Binswanger arriva alla conclusione che “non è possibile alcun trattamento di sicura efficacia. Giungiamo così alla conclusione di assecondare l’assillante desiderio della malata di essere dimessa“.

Ellen West viene dimessa, quindi, non perchè si trovi in una fase di sufficiente compenso psichico, ma perchè giudicata un caso intrattabile, come se la rassegnazione della paziente avesse contagiato lo stesso Binswanger.

Alla fine del terzo giorno dal rientro a casa col marito, Ellen trascorre una giornata caratterizzata da uno stato di raro benessere e di serenità. Assume quindi una dose letale di veleno, spirando al mattino successivo.

Analisi critica del caso di Ellen West

È forse superfluo dissentire sulla diagnosi di schizofrenia effettuata alla paziente. Al giorno d’oggi si porrebbe al centro la dimensione psicopatologica dell’instabilità dell’umore, che conduce la paziente dall’euforia al prevalente polo della melanconia, come aveva già individuato Kraepelin.

La scelta diagnostica è criticabile, ma è stata influenzata dall’epoca storica. A quel tempo, la schizofrenia assorbiva anche la maggior parte dei disturbi dell’umore.

Non si può che evidenziare, in ogni caso, una terribile serie di comportamenti anti-terapeutici dei diversi curanti. Essi hanno finito con l’avvalorare una convinzione di inguaribilità che Ellen stava maturando.

Abbiamo già preso in considerazione l’atteggiamento inqualificabile del secondo psicoanalista. Certo, oggi nessun terapeuta potrebbe agire in quel modo (arrivando addirittura a non curarsi dell’intenzionalità suicidaria di un paziente).

Notiamo tuttavia alcuni problemi di fondo legati ad una passiva adesione alla teoria freudiana, che potrebbero influenzarci anche oggi.

Alcuni limiti e pregiudizi della psicoanalisi freudiana.

Sigmund Freud, pur valorizzando nella pratica clinica la relazione col paziente, sul piano teorico è convinto della necessità di porre al centro del disagio psichico altri fattori. Non il soggetto e la sua esperienza concreta, ma una presunta abnorme ripartizione delle cariche energetiche a livello del suo sistema nervoso. E’ una sorta di mitologia cerebrale.

Nel corso di un trattamento psicoanalitico, rischia di riproporsi un comune scenario in tutti i più diversi casi clinici.

L’analista riconduce l’esperienza originaria del paziente alla riedizione di suoi presunti “conflitti libidici” nella fase orale, anale o genitale, insorti nell’età dello sviluppo.

Attraverso la terapia analitica sarebbe possibile effettuare un “trasferimento” del conflitto originario sul piano della relazione analista-paziente, che consentirebbe a quest’ultimo di risolvere idealmente il problema di fondo (parallelamente all’evolversi positivo del rapporto con il terapeuta).

Il paziente deve aderire necessariamente alla “teoria della libido” ed è portato ad apprendere il linguaggio e la terminologia indotti dall’analista nelle sue interpretazioni.

Si deve così rinunciare a cogliere la spontaneità dei sentimenti.

Gli stati d’animo spontanei del paziente andrebbero ridotti a fenomeni superficiali, secondari ad un presunto squilibrio nelle cariche energetiche dell’organismo.

L’analisi esistenziale di Binswanger nasce invece dall’esigenza di valorizzare l’ “esperienza immediata” del paziente.

La spontaneità del soggetto, mantenuta nella sua essenza originaria in psicoterapia, consentirebbe al curante di porre le basi per la cura di ogni disagio interiore del suo assistito.

Andrebbero, quindi, messi da parte tutti i pregiudizi e le barriere teoriche.

L’analisi esistenziale è scevra di pregiudizi?

I pregi ed i limiti di questo orientamento sono sostanzialmente gli stessi della filosofia di Heidegger su cui si basa.

Il filosofo tedesco, con il riconoscimento di ogni uomo come un irripetibile Esserci (essere-nel-mondo), ha evidenziato l’unicità e l’originalità del singolo individuo. 

L’uomo risulta l’unico essere capace di porre la domanda sul “senso” della sua esistenza. Può trovare la risposta solo se è libero da qualunque pregiudizio.

La vita dell’uomo è autentica quando è personale, ovvero libera espressione del suo carattere attivo ed originale.

Da dove proviene, tuttavia, l’esistenza dell’individuo?

Heidegger è convinto che la mia personale essenza dipenda dalla manifestazione di un Essere trascendente ed inconoscibile, che può talora rivelarsi con messaggi simbolici, allusivi, comunque non esprimibili in termini logico-razionali.

Compito di ogni uomo dovrebbe essere, quindi, quello di recepire queste corrispondenze e di accogliere il proprio destino, così come l’Essere ha stabilito.

Binswanger, fedele a questi insegnamenti, ha rilevato dalle manifestazioni psicopatogiche di Ellen West un destino ineluttabilente sfavorevole. Egli scrive:

“L’essere-nel-mondo, nel caso di Ellen West, era diventato maturo per la sua morte“. “La morte, questa morte, costituiva il necessario adempimento del senso della vita proprio di questa presenza“.

Una pervasiva e letale rassegnazione.

Ecco come le teorie filosofiche e psicopatologiche possano diventare terribilmente deleterie nella valutazione di un caso clinico concreto, quando interpretate in modo rigido ed unilaterale.

Si perde di vista l’individuo vivente, presente nel qui e ora, con le sue infinite possibilità di sviluppo.

Si analizza quindi il paziente come un mezzo per validare una convinzione già esistente nella mente del curante. Nel caso di Ellen: “Non c’è più nulla da fare”.

Con i nostri pazienti dobbiamo evitare sostanzialmente questo: l’indottrinamento, l’influenza dei nostri giudizi di valore, e l’uso passivo teorie precostituite senza una nostra attiva interpretazione.

Ogni valutazione clinica è invece da contestualizzare al caso concreto che abbiamo di fronte.

Forse Binswanger ha scelto di condividere questo suo fallimento terapeutico perchè ha intuito che il destino di Ellen non era così predeterminato: un’alternativa era possibile.

È vero che all’epoca non erano presenti efficaci terapie psicofarmacologiche. L’Autore ha tuttavia sottovalutato la sua indubbia competenza nel poter sottoporre la paziente ad una psicoterapia.

All’interno di essa si sarebbe potuto porre al centro, questa volta, il sentimento di rassegnazione (della paziente e del terapeuta) in modo problematico.

Dal punto di vista della nostra Scuola di Psicoterapia Dialettica, ogni rassegnazione del soggetto, anche estrema, presuppone un vissuto contrastante di speranza altrettanto intenso.

Anche se latente, la speranza tenderà inevitabilmente a manifestarsi, così come “l’ora più buia è quella che precede il sorgere del sole”. Questo è un aforisma di P. Coelho, scrittore che è riuscito a dare un senso alla propria esistenza nonostante un’impressionante serie di sofferenze personali.

Che cosa si sarebbe potuto fare di più?

Riguardo a Binswanger, una preziosa fonte di ispirazione sarebbe potuta giungere dal maestro Heidegger.  Quest’ultimo ha cercato il senso dell’esistenza umana nel sentimento di “cura”.

La “cura” è intesa nel significato latino: amore, sincera preoccupazione per l’altro, responsabilità verso il prossimo.

In tale contesto, ogni essere umano sofferente può essere anche definito inguaribile sul piano strettamente clinico, ma mai incurabile. L’estremo tentativo di curare un individuo è sempre possibile, anzi doveroso.

È davvero apprezzabile, in ogni caso, l’intenzione di Binswanger di ammettere pubblicamente i suoi limiti nell’affrontare il caso descritto; nonostante le capacità di descrizione e di analisi fuori dal comune che egli stesso ha evidenziato in questo testo.

E’ incredibile pensare a come le indiscutibili doti intellettuali di un grande psicopatologo siano essere state annichilite da una pervasiva rassegnazione. E’ un sentimento insorto subdolamente in lui, proprio nella relazione con una paziente che aveva molto a cuore.

Come afferma Baudelaire, d’altra parte, dall’esperienza del male (del fallimento e della morte) possono nascere fiori, ovvero, in questo caso, nuovi strumenti di consapevolezza per far luce sulla sofferenza dei nostri pazienti e sulle possibili reazioni emotive dei curanti.

Pierre-Auguste Renoir, “La colazione dei canottieri”.
Assumere cibo non è solo un comportamento del soggetto finalizzato a nutrire il proprio organismo. E’ un atto relazionale, conviviale, per realizzare il sentimento di unità tra l’essere umano e il suo mondo. Nel caso di Ellen West, l’atto di mangiare è stato progressivamente spogliato di spontaneità e di immediatezza. Il rapporto del soggetto col suo corpo è una delle fonti più preziose per determinare la salute mentale o la psicopatologia dell’individuo.

https://gabrielegiacomini.com/2019/12/25/lanalisi-esistenziale-di-l-binswanger-laspirazione-delluomo-a-comprendere-la-follia/

È possibile ascoltare sul Canale YouTube dell’Istituto CESAD il seguente ciclo di seminari su “Il caso Ellen West”:

https://www.youtube.com/watch?v=0telmBMraPQ&list=PLGLTPDHnqc4AsVvaVp0uqkWsbLwuM6Ln4&t=2s

5 pensieri riguardo ““Il caso Ellen West” di Binswanger: cosa NON fare in psichiatria.

  1. Lei tocca un tema estremamente sensibile che, arbitrariamente, condenso nella domanda: è il senso di vuoto una patologia individuale, o è la percezione “storica” di uno stato dell’Essere? E’ dunque qualcosa di curabile? Nel senso: abbiamo diritto di curarla, o deve risolversi in una presa di coscienza dell’Essere di se stesso, cosa che può – o meno – verificarsi?
    Una cosa che le psicoterapie fanno è, sempre, interpretare l’Essere all’interno di una schema ideologizzato, nel tentativo di sentirsi capaci di maneggiare una sorta di potenza terapeutica, che a volte è del tutto fuori luogo. Perché, in buona sostanza, l’Essere non ha una dimensione psichica… è la capacità dell’organico di sostenerne l’impatto a costituire quello psichismo, che a volte lo soffre patologicamente.
    Ho apprezzato molto il Suo articolo.

    1. Grazie dell’intervento! Sono d’accordo che l’Essere, come Trascendenza soprannaturale, non ha una dimensione psichica. Infatti non lo prendiamo in considerazione nella nostra Scuola di Psicoterapia.
      Consideriamo invece l’esistenza del singolo individuo. Essere per noi è un verbo, non un sostantivo.
      La “cura” di Heidegger, in questo senso, non è un’entità metafisica ma corrisponde al mio sentimento di volere entrare in contatto con l’altro, in modo che diventi parte di me. In tale contesto, la cura del prossimo è sempre possibile.

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