La coscienza dell’Io: “Conosci te stesso”

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“Conosci te stesso” è l’imperativo dominante dell’esistenza umana. La coscienza dell’Io è proprio il sentimento di esistere (“Io sono“).

È la consapevolezza di sè: un’esperienza vissuta in ognuno di noi senza necessità di prove o di evidenza scientifica. Quando attribuiamo a noi stessi o ad un’altra persona un’esistenza, riconosciamo una coscienza dell’Io.

Differenza tra coscienza dell’Io e vigilanza.

Spesso per “coscienza”, nel linguaggio medico, si intende il concetto di vigilanza.
Vigilanza e lucidità sono funzioni del sistema nervoso centrale: presuppongono l’efficienza della formazione reticolare del tronco encefalico ed un equilibrio nella sintesi dei neurotrasmettitori.

La coscienza di sè è invece difficilmente riducibile ad una funzione cerebrale specifica. Non è qualcosa che si può aumentare migliorando l’efficienza del sistema nervoso. Anzi, non è nemmeno una cosa.

La coscienza dell’Io non è un oggetto da avere, ma è la consapevolezza di essere.

La coscienza dell’Io non va “acquisita” o “controllata”; è già presente in noi e possiamo solo riconoscerla, lasciando che si manifesti e si espanda.
Vigilanza e concentrazione si localizzano nel cervello. La consapevolezza di sè è invece rappresentata dall’intero nostro corpo, ed anche oltre (come vedremo).

La coscienza dell’Io nasce all’interno del soggetto individuale (me stesso in carne ed ossa), nel momento in cui rifletto e riconosco la mia personale esistenza (“io sono”).

Per potersi esprimere nel mondo, l’io individuale necessita del funzionamento dell’organismo e del sistema nervoso: è inconcepibile pensare ad un individuo senza un corpo con cui esprimersi e senza un mondo in cui vivere. Heidegger, a questo proposito, descrive l’uomo come “essere-nel-mondo”, sottolineando l’inseparabile unità tra soggetto ed oggetto.

Se tuttavia riduco la coscienza dell’Io alle funzioni del cervello, come risultato avrò un automa, non un essere vivente.
Un automa è passivo, sempre uguale a se stesso nelle sue reazioni di stimolo-risposta. La coscienza dell’Io è invece un’attività incessante di auto-superamento di sè.

Secondo K. Jaspers, l’essere umano acquista consapevolezza di se stesso attraverso quattro modalità (o “caratteri formali”): sentimento di attività dell’Io, coscienza dell’unità del soggetto, coscienza dell’identità di se stesso, consapevolezza dei confini dell’Io.

Coscienza ed attività dell’Io.

L’attività dell’Io è il sentimento di personalizzazione e di appartenenza all’esistenza, che ci permette di riconoscere la vita come nostra.
La caratteristica più significativa della coscienza dell’Io è proprio quella di essere energia attiva.

Le altre funzioni psichiche e neurologiche sono passive: il pensiero, la memoria, la sensazione, la percezione ecc. hanno tutti la necessità, per essere reali e concreti, di essere attivati da una funzione superiore, l’autoconsapevolezza.

Ogni funzione neurologica e psichica può anche agire senza la spinta della consapevolezza: come risultato avremo, però, solo un insieme di automatismi, di reazioni prevedibili in risposta a stimoli ambientali (analogamente ad un arco riflesso).

Ogni attività del soggetto implica uno sforzo di volontà.

K. Schneider utilizza il termine “streben” per indicare questa spinta attiva di volontà individuale. È un termine utilizzato nella filosofia romantica tedesca per indicare la tendenza innata dell’uomo alla conoscenza di se stesso, attraverso il problematico superamento degli ostacoli che il mondo ci propone.

Questa spinta attiva per conoscere se stessi allude ad un’inevitabile esperienza di sofferenza del soggetto: la consapevolezza di esistere nasce dal sentimento di un problema, di un’opposizione, di un conflitto tra me stesso ed il mondo esterno, senza il quale sarebbe impossibile definire la mia presenza (momento dialettico dell’antitesi).

Posso definire “chi sono” solo per esclusione, attraverso la consapevolezza di “che cosa non sono” e dei miei difetti: questa è inevitabilmente un’esperienza dolorosa.

La sofferenza del soggetto non è, però, fine a se stessa: è essenziale come prezzo da pagare per conoscere se stessi.

Il concetto di “apprendere attraverso il dolore” (“Pathei mathos”) è già presente nell’antica Grecia, dai tempi di Eschilo.

In quest’ottica, anche ciò che è negativo e che è “male” non è privo di senso, ma ha una funzione necessaria, pur spiacevole, per l’evoluzione della nostra personalità.

Un evento doloroso è come un’occasione non gradita: può far maturare il soggetto o farlo sprofondare nella disperazione, a seconda dell’atteggiamento dell’individuo, della sua capacità di accettare la sofferenza e di conferirle un senso.

Identità ed unità dell’Io.

Dalla dolorosa tensione dialettica originaria nascono la vita psichica e la possibilità di conoscere chi siamo.

Io stesso tendo, in primo luogo, ad indentificarmi con la mente ed il cervello, con la mia persona empirica, con il nome e cognome che mi sono stati assegnati.

Nel corso della vita devo però scontrarmi con la triste consapevolezza di essere limitato, finito, defettivo. Se mi identifico con mente e corpo, inevitabilmente proverò la sensazione di essere un’inutile goccia all’interno di un oceano infinitamente più grande di me, indifferente alle mie sorti.

Questa è la condizione di sofferenza cui è destinato l’individuo egoista, che intende salvaguardare la propria identità personale chiudendosi alla relazione con gli altri.

In questo modo, paradossalmente, il soggetto si condanna a percepire in ogni istante i vissuti di solitudine, di impotenza e di isolamento. Il suo corpo non è lo strumento per entrare in contatto con l’altro, ma diventa una prigione opprimente.

Dall’individuo narcisista all’apertura verso l’universale.

L’io particolare (narcisista, per usare un termine psicoanalitico) deve evolversi, andare oltre se stesso, anche a prezzo di uno sforzo di volontà fonte di sofferenza, per aspirare a divenire un Io universale.

Scopo dell’esistenza è raggiungere quella ideale unione tra soggetto e oggetto: tra la mia persona e gli altri individui (momento dialettico della sintesi).

Quando l’identità dell’io individuale coincide con l’unità universale, il soggetto si sente autenticamente parte di un Tutto (“una docile fibra dell’universo”, come scrive Ungaretti). L’identità dell’individuo non si annulla, anzi viene rafforzata dalla coesione con il mondo esterno.

Per essere più precisi, in questo stato di estasi non c’è neppure distinzione tra mondo “interno” ed “esterno”.

Se prima avevo la sensazione di essere un’insignificante goccia nel mare, ora riesco ad indentificarmi con l’oceano stesso.

È una sensazione corrispondente alla beatitudine: uno stato interiore raro nell’uomo comune, raggiunto per lo più nell’attimo di un intenso momento di benessere e di armonia.

Se l’io invece percepisce una prolungata separazione e disgregazione dall’altro e dal mondo, ecco che insorgono improvvisamente i sentimenti di angoscia e di disperazione.

Confini ed infinità dell’Io.

Nell’esperienza immediata della nostra vita, i confini di noi stessi corrispondono al corpo, che delimita il nostro spazio interno dal mondo circostante. Ma è una barriera impermeabile? No, è un terreno di scambio: il nostro corpo biologico, per vivere, necessita in ogni istante di connettersi alla natura per respirare, mangiare, bere e svolgere le funzioni vitali essenziali.

Anche la psiche, essendo parte del corpo, è continuamente in relazione col mondo.

Nella nostra esperienza quotidiana, ognuno di noi tende spontaneamente ad individuare analogie tra la propria esistenza e quella degli altri, ad immedesimarsi della vita altrui: proviamo simpatia, disprezzo, gioia, rabbia ed infinite sfumature di sentimenti quando ci rispecchiamo in un’altra persona. Più un individuo ci è familiare, più questi sentimenti sono intensi.

Il nostro Io è finito o infinito?

Quando guardiamo un film, ci immedesimiamo e proviamo commozione per la triste sorte di un individuo, siamo solo il nostro corpo e la nostra mente? O esistiamo anche in quel personaggio?

Quando siamo allo stadio e la nostra squadra del cuore segna, ci abbracciamo tutti quanti. Dov’è la nostra individualità? Non è scomparsa, ma al tempo stesso è presente all’interno di tutti i giocatori e di tutti gli altri tifosi della squadra. Ogni amante del calcio può comprendere quella gioia. È diventata universale.

Ha quindi senso delimitare i confini dell’Io al nostro corpo fisico?

Nell’atteggiamento di apertura verso il mondo esterno e verso gli altri soggetti, i confini del mio io individuale si espandono, finchè non mi sento un tutt’uno con l’armonia universale: in questo modo, l’io individuale si evolve in un Io con la “I” maiuscola, infinito, che racchiude l’esperienza di tutti gli altri soggetti di ogni tempo e luogo, oltre i vincoli delle categorie intellettuali.

Conclusioni.

È molto difficile ridurre la coscienza dell’Io ad un meccanismo cerebrale. Anzi, è dannoso: l’identificazione io-intelletto è spesso presente nelle persone che soffrono di disturbi psichici anche gravi.

La mente, per definizione, analizza e scompone la realtà per meglio studiarla ed elabolarla. Divide e separa, sia cose che persone. Tende poi ad amplificare pensieri e sentimenti, fino a presentare al soggetto immagini spesso distorte di sè e degli altri.

Se io identifico me stesso con la mente, sarò destinato a provare vissuti di separazione, frammentazione e dissociazione: corrispondono ai sentimenti di alienazione e depersonalizzazione, tra gli stati d’animo fonti di più intensa sofferenza ed angoscia.

Non a caso, depressione e comportamenti suicidari sono più alti nei paesi intellettualmente e produttivamente più sviluppati, dove è più diffusa l’identificazione tra il soggetto e la mente razionale, e maggiore è l’equazione tra essere umano e macchina.

Come posso superare l’illusione di essere un oggetto finito, limitato, meccanico, separato dal resto del mondo?

Innanzitutto attraverso il recupero di un dialogo interiore autentico e di una riflessione attiva su me stesso, oltre i pensieri intrusivi ed automatici che spesso provengono dalla nostra mente (e che presupponiamo erroneamente come veri).

Il dialogo interiore è anche il punto di partenza per costruire una sana relazione con l’altro, che vada al di là di un generico sfruttamento interpersonale.

Se sono davvero in contatto con i miei sentimenti, potrò scorgere corrispondenti vissuti e parti di me in qualunque altra persona.

Quando nell’altro riesco a scorgere la stessa dialettica dei sentimenti che esiste in me, il mio io individuale trascende se stesso per aprirsi all’Io universale.

Lo psicoterapeuta ha il delicato compito di aiutare l’individuo a smascherare gli inganni della mente ed a svelare l’infinito potenziale già presente in ognuno di noi.

 

“Γνῶθι σαυτόν”, ovvero “Conosci te stesso”, è una massima che si trovava scritta sul tempio di Apollo a Delfi (risalente al IV secolo a.C). All’origine, la frase era probabilmente intesa come un invito ad ammettere l’inferiorità dell’essere umano a Zeus; ora la coscienza dell’Io può essere riscoperta, invece, come il principio universale immanente in ognuno di noi.

 

Si consiglia la visione del seguente video:

https://www.youtube.com/watch?v=OxqYKR7zJmw&list=PLGLTPDHnqc4B-11y6T_0GU05-mhA1hMlp&index=1&t=22s

 

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