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Introduzione
Arthur Schopenhauer (1788-1860) afferma che tutto il mondo è la mia rappresentazione soggettiva. Si dichiara seguace di Kant, ma fin da subito oltrepassa la visione filosofica di quest’ultimo.
Per Kant la realtà esiste indipendentemente dall’individuo che la percepisce (pur inquadrata dalle nostre categorie dell’intelletto). Schopenhauer, invece, incentra la sua filosofia sulla possibilità del soggetto di costruire attivamente il proprio mondo.
“Il mondo è la mia rappresentazione”: ecco una verità che vale in rapporto a ciascun essere vivente e conoscente (…). Egli non conosce nè il sole nè la terra, ma sempre soltanto un occhio che vede un sole, una mano che sente una terra (…). Questo mondo intero è solamente oggetto in rapporto al soggetto, intuizione di chi intuisce, in una parola: rappresentazione”.
Il mondo è la rappresentazione attiva dell’Io
Schopenhauer ricollega esplicitamente la sua teoria conoscitiva agli antichi testi indiani Veda (risalenti addirittura a partire dal XX secolo a.C), scritti in sanscrito.
Il filosofo tedesco è colpito particolarmente dalla teoria della scuola Vedanta (sviluppatasi dal IX secolo a.C.), secondo cui l’essenza delle cose dipende dalla nostra percezione, e non viceversa.
A questo proposito, Schopenhauer cita il contributo dello storico W. Jones, a lui contemporaneo:
“Il principio fondamentale della scuola Vedanta consiste non nel negare l’esistenza della materia, ma nel correggerne la nozione comune popolare, asserendo che nulla esiste indipendentemente dalla percezione mentale. Esistenza e percezione sono termini convertibili“.
Esiste solo quello che io percepisco e costruisco attraverso la mente: “Il mondo è la mia rappresentazione”.
Ogni rappresentazione non è, quindi, un evento passivo, ma avviene sempre in rapporto ad un soggetto, per definizione attivo e problematico.
Non c’è una sostanziale differenza tra interiorità ed esteriorità: il cosiddetto “mondo esterno” corrisponde al mio modo di essere. Il mondo rispecchia gli aspetti positivi, negativi e problematici che caratterizzano la mia personalità.
Questo significa che se modifico la mia percezione del mondo, la realtà si trasforma nella sua essenza.
Il mondo è la mia rappresentazione: implicazioni in psicoterapia.
Immaginiamo ad esempio un edificio, una casa dove ho trascorso l’infanzia.
Se da piccolo sono stato felice, rivedendo la casa in età adulta proverò sentimenti di gratitudine e di serenità, anche se velati di malinconia.
Se invece sono stato maltrattato o abusato in età infantile, tornare di fronte a quel luogo susciterà in me sentimenti di angoscia, rabbia, frustrazione.
L’oggetto percepito è lo stesso, ma può rappresentare due realtà antitetiche nel mio vissuto interiore.
“Che cosa rappresenta per lei questa situazione?” è una domanda fondamentale che ogni professionista della salute mentale utilizza per cercare di comprendere la visione del mondo del paziente.
L’uomo può accedere ad ogni conoscenza?
Se esiste solo quello che io percepisco, aumentando le mie facoltà percettive posso accedere a qualsiasi conoscenza, anche la più profonda ed apparentemente oscura. Come avviene tutto questo? Grazie a due peculiarità fondamentali dell’essere umano:
1) Possedere la facoltà di autoriflessione.
2) Avere un corpo, di cui è possibile affinare la percezione.
L’uomo per Schopenhauer è un “animale metafisico”. Possiede la coscienza di sè ed è in grado di verbalizzare a se stesso una domanda fondamentale: “Che senso ha la mia esistenza?”.
Per Schopenhauer il corpo è la rappresentazione della mia volontà
Grazie all’autoriflessione, posso arrivare a comprendere che il mio corpo non è un oggetto meccanico o astratto.
“Nel corpo io vivo dal di dentro”.
Questo mi permette di provare concreti sentimenti di gioia e di dolore, di percepire la vita in ogni sua essenza: è reale solo ciò che percepisco.
Io vivo grazie al corpo. Anche se la mia esistenza non si identifica solo nel corpo.
Il mio organismo non è un freddo macchinario, nè un insieme di automatismi. Se lo percepisco autenticamente, arrivo a comprendere che il corpo è la rappresentazione della mia volontà: l’apparato digerente è la mia voglia di nutrirmi, le mani sono la mia intenzione di interagire con la realtà, i piedi la mia aspirazione a progredire ed a superare gli ostacoli, l’apparato sessuale è il mio desiderio provare di piacere e di riprodurmi, ecc.
Io, prima ancora di essere intelletto e pensiero, sono volontà di vivere.
Ad ogni altro essere, vivente o non vivente, dovrò attribuire la stessa volontà di esistere. Anche un sasso, in questo senso, “vuole” affermare se stesso, attraverso la sua estensione e la sua resistenza alle sollecitazioni. Tutta la Natura vuole esistere, affermare se stessa.
Io, come soggetto, sono intimamente interconnesso al mondo naturale. Anzi, aspiro a divenire la Natura stessa, in una sintesi di soggetto ed oggetto.
Al di fuori di questo tipo di percezione, ogni realtà risulta ingannevole.
Il nostro io particolare: un grande ingannatore.
L’illusione fondamentale, radice di ogni sofferenza umana, è convincersi di una presunta separazione tra il nostro io individuale ed il mondo “esterno”.
L’inganno più radicale è pensare che vi sia una realtà esistente di per sè, indipendentemente dal soggetto che interagisce con essa.
L’uomo comune, nella sua vita particolare, è convinto di una sua esistenza divisa da quella degli altri soggetti.
La sua rappresentazione del mondo è erronea ed ingannevole. Questo soggetto si comporta come un viandante del deserto che osservi, da lontano, l’ombra del sole splendente sulla sabbia: a quel punto ha l’illusione di vedere una distesa d’acqua, ma è solo sabbia.
Di più: nell’uomo inconsapevole non vi è alcuna differenza, secondo Schopenhauer, tra vita reale e sogno. Se non che la vita ha un’apparente continuità di eventi negli stati di veglia, mentre il sogno segue una sua logica intrinseca indipendente.
Quindi, la vita dell’uomo inconsapevole non è altro che un lungo sogno, intervallato da brevi sogni, corrispondenti agli stati onirici.
La vita reale è paragonabile alla lettura coerente dei fogli di un libro. Se noi sfogliamo qua e là le pagine, abbiamo il sogno.
Nessun sogno, tuttavia, è un’esperienza caotica. Possiede un senso che è possibile cogliere attraverso il linguaggio dei simboli.
L’uomo è servo della Volontà?
L’uomo comune dorme e deve essere risvegliato.
Una prima consapevolezza deve ridestarsi in me: ogni parte del mio corpo e del mondo naturale è la rappresentazione del mio sentimento e della volontà.
Ma è davvero la mia volontà? O è una Volontà esterna a me stesso, che mi rende schiavo di essa?
Schopenhauer evidenzia il rischio che il sentimento di volontà possa sfuggire alla mia consapevolezza. La Volontà può lentamente prendere possesso di me, fino a diventare una realtà che mi domina. Al punto che neanch’io so più quello che voglio.
La psicoanalisi collocherà nell’inconscio l’insieme dei desideri che si sono resi autonomi dalla nostra consapevolezza e che ci condizionano.
L’individuo comune, che non si accorge di questi subdoli processi interiori, non è altro che servo della volontà, “come il cavallo dipende dal cavaliere”. In questo contesto, si profila per lui una vita dominata da sentimenti di alienazione, sofferenza, rassegnazione, manchevolezza, noia, passività.
Il tempo dell’esistenza è scandito da un opprimente “pendolo”.
In tale scenario, i momenti di piacere e di gioia sono trascurabili se paragonati alla quantità di tempo in cui siamo tormentati dal desiderio di ciò che non abbiamo, che può facilmente divenire compulsivo in ognuno di noi.
Ecco che abbiamo perso la libertà e siamo diventati automi, un oggetto tra gli oggetti, alla ricerca di relazioni puramente strumentali con gli altri.
Anche il mondo che ci circonda, come rappresentazione di noi stessi, diviene un luogo di frustrazione, fonte di desideri mai saziabili. Così siamo spesso tristi, addolorati, arrabbiati per quello che non possediamo.
Soprattutto, proviamo noia per l’interminabile tempo in cui non siamo pervasi dall’eccitazione di avere quello che cerchiamo.
Da qui la famosa frase di Schopenhauer secondo cui la vita è paragonabile ad un pendolo, che oscilla tra il dolore e la noia, passando per fasi fugaci di piacere e di gioia.
Le vie della liberazione dal dolore secondo Schopenhauer
Nonostante il pervasivo pessimismo di fondo, Schopenhauer mantiene accesa la speranza che, attraverso la rinascita della consapevolezza di sè, l’uomo possa arrivare alla liberazione dal dolore:
“Io non conosco nessuna preghiera più bella di quella che concludeva gli antichi spettacoli teatrali dell’India. Dice: Possano tutti gli esseri viventi essere liberi dal dolore!”
D’altra parte, “il mondo è la mia rappresentazione” e nulla esiste di per sè. Cambiando il mio atteggiamento posso, quindi, realizzare una trasformazione radicale della realtà.
Secondo l’Autore, la scienza naturale non può essere lo strumento per liberare l’uomo dal dolore. La scienza meccanica è irretita, per definizione, nelle categorie di spazio, tempo e causalità. Siamo agli antipodi della libertà e della spontaneità.
Le scienze naturali possono aiutare l’uomo a padroneggiare meglio la realtà attraverso applicazioni tecniche. Non a condurlo a scorgere il senso dell’esistenza, che va cercato altrove.
L’arte come temporaneo sollievo dal dolore.
L’arte è un’attività libera e disinteressata, che consola l’uomo in un trascendimento dalla routine quotidiana, per quanto temporaneo. E’ la prima via per arrivare ad una liberazione dal dolore, per quanto effimera.
Creando o contemplando un’opera d’arte, il singolo individuo può diventare, magari per un solo istante, “l’occhio del mondo”. Lo spirito artistico permette all’uomo di aumentare le proprie facoltà percettive e di elevarsi al di sopra della vita terrena (dominata dai principi meccanicistici di spazio, tempo e causalità).
Questo ha, come effetto, un sentimento di catarsi, di purificazione interiore (di sublimazione, per utilizzare un termine usato in psicoanalisi).
Schopenhauer definisce l’arte un breve incantesimo, un sollievo che non può tuttavia consentire una vera liberazione dal dolore ed un duraturo conforto all’esistenza stessa.
L’etica della compassione
Più interessante, dal punto di vista psicologico, è il significato che Schopenhauer attribuisce all’etica.
L’etica, secondo l’Autore, non corrisponde ad un codice morale astratto, nè ad un imperativo dettato dall’intelletto (come affermava Kant). Ogni normativa prescritta da entità esterne sembra nascere per essere infranta.
Io posso rispettare una regola solo se davvero sento mia tale esigenza.
L’etica per Schopenhauer rappresenta la mia intenzione concreta di superare l’egoismo e di aspirare all’universalità. Ovvero all’unità con gli altri e con il mondo che mi circonda. Questa è un’esigenza naturale dell’animo umano, che deve solamente venire alla luce.
L’egoismo nasce invece dall’illusione che il mio “io empirico” (la mia persona, contraddistinta convenzionalmente da nome e cognome) sia separato dal mondo esterno.
Il velo di Maya ingannatore dà all’uomo la sensazione di essere distinto dagli altri individui. Ogni io inconsapevole è quindi pervaso da una volontà compulsiva di prevaricare sugli altri. In realtà, tutti gli esseri viventi sono un’assoluta unità.
Aprire gli occhi e vedere se stessi negli altri.
L’egoismo non è altro che una forma di schiavitù, che mi rende carnefice del prossimo e vittima della mia stessa volontà istintiva (di cui ho perso il controllo).
Afferma Schopenhauer:
“Il tormentatore ed il tormentato sono un tutt’uno. (…) Se ad entrambi si aprissero gli occhi, colui che infligge il dolore riconoscerebbe che egli vive in tutti gli esseri che, nel vasto mondo, soffrono il tormento.
E il tormentato vedrebbe che ogni male che fu commesso a questo mondo o che fu commesso un tempo, scaturisce da quella volontà che costituisce anche la sua essenza“.
Che cosa, allora, può squarciare il velo di Maya e far svanire questa grande illusione?
È il sentimento della compassione, che permette di percepire e di comprendere in me stesso gli analoghi vissuti dell’altro.
Il significato della compassione.
La compassione è differente dal compatimento: quest’ultimo, anzi, aumenta la distanza tra me stesso e l’altro, attraverso la messa in atto atteggiamenti paternalistici, con cui io induco subdolamente il prossimo alla sottomissione.
La compassione è invece la facoltà che mi permette, alla pari, di “sentire” ciò che prova l’altro. E di conoscere meglio me stesso, attraverso di lui.
Schopenhauer come precursore della psicologia della Comprensione.
Schopenhauer parte dal presupposto che lo stesso sentimento che io percepisco esista anche nell’altro. Esistenza e percezione sono sinonimi, come abbiamo visto prima.
Questo è anche il principio della psicologia della comprensione, che K. Jaspers proporrà nella Psicopatologia Generale del 1913. La psicologia comprensiva si fonda sulla ricerca di un’intima corrispondenza tra i miei stati d’animo e quelli dell’altro.
Possiamo aggiungere, dal contributo delle psicologie analitiche, che io, quando sono immerso in una stretta relazione con l’altro, non posso fare a meno di proiettare in lui le mie qualità: proverò ammirazione per le stesse doti che apprezzo in me, invidia per quello che l’interlocutore possiede e che a me manca, oppure rabbia nel ritrovare i miei difetti nei comportamenti del prossimo.
Ha senso, allora, parlare di una realtà esistente di per sè? Io vivo in un mondo che è la mia rappresentazione.
E poi chi sono io? Sono solo il mio essere empirico, circoscritto dal mio corpo? No. Nella vita quotidiana trasferisco continuamente nell’altro i miei sentimenti e viceversa: io sono anche nell’altro, così come l’altro è parte di me.
La mia esistenza è tutt’uno con quella di ogni essere vivente, con cui sono intimamente interconnesso, che ne sia consapevole o no. Schopenhauer a questo proposito afferma:
«Sia dannata ogni morale che non vede l’essenziale legame fra tutti gli occhi che osservano il sole».
Schopenhauer e il rifiuto del suicidio.
Nella visione pessimistica che prevale in Schopenhauer, la vita dell’uomo inconsapevole (quindi della quasi totalità degli individui) è dolore, impotenza, schiavitù della Volontà. Viene da chiedersi se il suicidio non sia la logica conseguenza di questa condizione.
Schopenhauer, però, rifiuta questa soluzione: il suicidio è infatti l’inganno estremo, “il capolavoro di Maya”, conseguenza della fondamentale “illusione” di essere separati dagli altri. Significa concepire erroneamente che la mia identità sia circoscritta all’individuo che il mio corpo sembra delimitare.
Per Schopenhauer, inoltre, il suicidio non è rifiuto della vita, ma è l’affermazione di un’intensa volontà egoistica di vivere. Io, per una forma di antitesi (che possiamo definire dialettica), ribadisco e rivendico, con questo atto, la mia impossibile aspirazione a realizzare un progetto personale di esistenza. Tuttavia, non potrò mai raggiungere questo ideale attraverso uno sforzo individuale.
Se “il mondo è la mia rappresentazione”, l’individuo che aspira al suicidio vive in una realtà simile ad un incubo. Si immerge in uno scenario dominato dalla frustrazione per desideri non realizzabili e dalla disperazione per l’incomunicabilità di tale condizione.
C’è un antidoto al suicidio?
L’unica soluzione anti-suicidio è uscire dall’isolamento individuale e divenire intimamente consapevoli della profonda unione tra tutti gli esseri viventi. Come? Aumentando le nostre facoltà percettive, fino a vivere autenticamente una condivisione, una compartecipazione tra i miei sentimenti e quelli dell’altro.
I mistici orientali, da millenni, propongono tecniche per aumentare la nostra percezione interiore ed esteriore (come lo yoga e la meditazione).
Schopenhauer sembra provare un forte fascino per le esperienze di beatitudine, “estasi”, “nirvana” percepite da mistici di diverse origini e scuole di pensiero. In questi stati il soggetto individuale non scompare, ma trascende se stesso, fondendosi in una sintesi armonica con l’oggetto universale.
Quando sono in uno stato di beatitudine, sento di non essere più un misero individuo isolato. Percepisco invece, in modo tangibile, di appartenere all’Universo intero e che, viceversa, l’Universo appartiene a me.
L’idea di suicidio, in questo contesto, perde consistenza fino a scomparire.
Quello che si percepisce realmente nello stato di estasi, tuttavia, risulta impossibile da trasmettere in termini intellettuali.
La sofferenza e la definitiva liberazione dal dolore.
Non è indispensabile ricorrere all’ascetismo per raggiungere la liberazione dal dolore.
Secondo Schoperhauer, in effetti, la maggior parte delle persone arriva alla libertà ed alla consapevolezza di sè indirettamente, attraverso l’esperienza di sofferenza che pervade naturalmente la nostra vita.
E’ sufficiente lasciare fluire le emozioni spiacevoli quando insorgono in noi, senza contrastarle.
Il risveglio dell’uomo attraverso la sofferenza.
Scrive Schopenhauer:
“Anche la sofferenza in generale, com’è inflitta dal destino, è una seconda strada per pervenire alla negazione (ndr dell’egoismo). Noi possiamo, anzi, stabilire che i più vi arrivano percorrendo tale strada, e che è la sofferenza personalmente sentita e non quella semplicemente conosciuta, ciò che più frequentemente causa la rassegnazione (ndr dalla volontà egoistica di sopraffare gli altri), spesso soltanto in prossimità della morte”.
“Allora vediamo che l’uomo, dopo essere stato portato alla disperazione attraverso tutti i gradi della crescente angoscia e nonostante la resistenza più violenta, ritorna improvvisamente in sè, riconosce se stesso e il mondo (ndr potremmo affermare: “riconosce se stesso nel mondo”), cambia tutto il suo essere, si eleva al di sopra di se stesso e di ogni sofferenza e, come purificato e santificato da questa, in una pace, in una beatitudine, in una sublimità inoppugnabili, rinuncia volontariamente a tutto quello che poco prima voleva con la più grande veemenza ed accoglie con gioia la morte.”
Gli sviluppi del pensiero di Schopenhauer nell’esistenzialismo.
Il tema del dolore, come occasione di conoscenza di sè e di auto-liberazione, sarà ampiamente sviluppato nell’esistenzialismo.
Si allude ad una sofferenza che deve essere pienamente vissuta nel singolo individuo. Non astrattamente analizzata (come leggendo un testo o studiando un documento scientifico), ma percepita personalmente ed accettata in tutte le sue declinazioni.
Attraverso la viva esperienza della sofferenza e dei nostri limiti, si risveglia in noi una funzione psichica rimasta latente (sostituita dai quotidiani automatismi comportamentali): la coscienza dell’Io.
Jaspers svilupperà il concetto di coscienza dell’Io nella sua Psicopatologia Generale. Possiamo definirla come la libera attività del soggetto. E’ un nucleo unitario che, da un lato, corrisponde alla mia identità autentica; dall’altro, mi permette di riconoscere immediatamente il prossimo come un mio simile. Come una parte di me.
La consapevolezza di sè è un’attività psichica al di sopra delle funzioni cerebrali (come ad esempio la sensazione, il pensiero, la memoria, la vigilanza), che sono passive.
La coscienza dell’Io rinasce in noi proprio in contrapposizione a vissuti estremi di defettività e di sofferenza. Soprattutto quando ci sentiamo vicini al fallimento ed alla morte.
Che cos’è la morte?
Secondo Schopenhauer, se la vita quotidiana è un’illusione, lo stesso vale per la morte.
Essa è un “nulla” per chi è ancorato alla sua vita particolare; se riesco tuttavia ad elevarmi al di sopra della sfera dell’egoismo, scopro che la naturale fine della vita è l’unione con l’essenza universale.
La morte dell’io individuale corrisponde all’espansione del soggetto verso l’infinito, oltre gli opprimenti limiti dell’esistenza terrena.
Se il mondo è una rappresentazione illusoria, non temo la morte.
In un passo de “Il mondo come volontà e rappresentazione”, Schopenhauer afferma:
“Un uomo che trovasse soddisfazione nella sua vita e, riflettendo con calma, desiderasse che la sua esistenza, come vissuta finora, avesse una durata senza fine ed un sempre nuovo ritorno, ed il cui coraggio vitale fosse così grande che egli, di fronte al piacere della vita, accettasse insieme tutte le pene ed i malanni cui egli è soggetto, un tale uomo starebbe con salde e vigorose gambe sulla terra ben arrotondata e stabile.
Armato di quella coscienza che gli attribuiamo, egli guarderebbe impassibile la morte che si avvicina veloce sulle ali del tempo, considerandola una falsa parvenza, impotente fantasma per spaventare i deboli, ma che non ha nessun potere su colui che sa di essere, lui stesso, quella volontà, la cui oggettivazione o copia è il mondo intero.
Per lui, quindi, la vita rimane sempre certa ed anche il presente, l’autentica ed unica forma della volontà, che nessun passato o futuro infinito può spaventare, perché egli lo considera come la vana illusione, come il velo di Maja.
Perciò egli avrebbe da temere la morte altrettanto poco, che il sole la notte”.
La psicoterapia come occasione di “risveglio”.
Questo dovrebbe essere l’obiettivo ideale di ogni psicoterapia: mettere il paziente nelle condizioni di affrontare la sofferenza anzichè evitarla, permettergli di scacciare i fantasmi del proprio auto-annichilimento e di sentirsi padrone della propria esistenza, vivendo in modo pieno il momento presente.
L’uomo sopra descritto non è un passivo strumento di una Volontà onnicomprensiva (scenario in cui vive, invece, la persona comune, che giace nel sonno). Al contrario questo individuo, come risvegliato dalla sofferenza, divenuto consapevole di sè e delle sue facoltà, “sa di essere lui stesso quella volontà“.
Se il soggetto riscopre che il sentimento di volontà gli appartiene intimamente, può davvero diventare un’entità dal potenziale illimitato, fino ad osservare con superiorità e distacco la morte stessa.
Lo smascheramento delle illusioni, l’accettazione della sofferenza e l’acquisizione della consapevolezza di sè sono le doti principali che Schopenhauer attribuisce a questo individuo ideale (precursore dell’Oltre-uomo di Nietzsche).
Aggiungerei che un’altra qualità fondamentale dell’uomo consapevole è quella di possedere un profondo sentimento di gratitudine verso gli altri ed il mondo che lo circonda. Gratitudine che coinvolga paradossalmente anche la sofferenza provata, le persone ostili e gli eventi negativi dell’esistenza. Queste esperienze risvegliano in lui l’esigenza di superare i suoi limiti.
Se il mondo è la mia rappresentazione, quali sono le conclusioni?
Sono innumerevoli le influenze che Schopenhauer ha lasciato nella filosofia, che sono state successivamente raccolte e sviluppate in psicopatologia:
Il primato del sentimento sui principi intellettuali della tradizione filosofica occidentale.
Da Platone a Cartesio, fino a Kant, la conoscenza era intesa come un passivo rispecchiamento intellettuale di una realtà esistente di per sè. Schopenhauer sottolinea invece il carattere attivo della costruzione della realtà: essa non è altro che la mia rappresentazione, guidata dal mio sentimento di volontà e di affermazione.
Il ruolo del corpo
Nella tradizione platonica e cattolica il corpo è considerato come un’entità limitante, peccaminosa, squalificante. Al corpo è contrapposta un’ “anima” equilibrata e razionale (paragonabile alla perfezione delle idee matematiche), riflesso della mente divina.
Nelle scienze naturali il corpo è invece ridotto ad un meccanismo biologico, spogliato della sfera del sentimento.
Per Schopenhauer il corpo è l’immediata espressione del mio sentimento di volontà, ovvero dell’affermazione di me stesso. È sì un limite, ma al tempo stesso (dialetticamente) un mezzo per trascendere me stesso e conoscere la mia vera natura.
Il linguaggio del corpo e la comunicazione non verbale del paziente sono espressioni di estrema importanza in psicoterapia, ancora più significative degli elementi verbali.
Il sogno
Nella tradizione filosofica occidentale il sogno è stato (salvo rare eccezioni) poco considerato. Spesso è stato relegato ad un’esperienza caotica e priva di senso, contrapposta alle idee cartesiane “chiare e distinte” della mente razionale.
Per la scienza naturale, il sogno non è altro che la risposta cerebrale passiva a stimoli elettrici e meccanici.
Per Schopenhauer il sogno è un’esperienza attiva dell’Io.
Il sogno, come il mondo “reale”, è la mia rappresentazione: in entrambe le situazioni, io sono il protagonista dello scenario che si manifesta davanti a me, ma ne sono anche il regista.
Il sogno veicola messaggi che racchiudono un senso, con modalità non logiche ma analogiche.
Da questi presupposti, la psicoanalisi individuerà nel sogno “la via regia” per accedere all’inconscio e trasformare ciò che è caotico in consapevolezza.
La coscienza dell’Io
Tutto quanto è inconsapevole, frutto di un lungo sonno ed informe deve giungere alla consapevolezza. Questa è la chiave dell’illuminazione e della beatitudine, che per Schopenhauer conduce alla liberazione definitiva dal dolore.
Anche la psicoanalisi freudiana, pur tra diverse ambiguità epistemologiche, ammetterà che “dove c’era l’Es dovrà esserci l’Io”.
Analogamente C. G. Jung afferma: “Rendi cosciente l’inconscio, altrimenti sarà l’inconscio a guidare la tua vita, e tu lo chiamerai destino”.
Io sono energia nell’atto di prendere coscienza di me stesso. Quando scopro questo, mi risveglio e mi accorgo di avere vissuto per un tempo indeterminato come un automa. Cioè come un oggetto, schiavo di istinti e compulsioni.
Per scoprire la mia vera identità devo essere disposto a tutto, anche a soffrire fino alla morte. In questo modo la parte più autentica di me si rivelerà alla mia coscienza. Questo messaggio, da Schopenhauer, è stato tramandato attraverso le correnti esistenzialistiche (M. Heidegger, K. Jaspers, M. Boss, V. Frankl) fino ad oggi.
L’esperienza per cui io devo contraddire me stesso al fine di riaffermarmi con maggiore consapevolezza contiene, evidentemente, un principio dialettico: devo ritrovarlo nell’attualità del momento presente per percepire autenticamente di essere vivo.
È qui raffigurata la statua di Shiva, tratta da https://isha.sadhguru.org/
Secondo la tradizione, Shiva fu il fondatore dello yoga. Rimase per un tempo indefinito sull’Himalaya, nell’ascesi e nella sofferenza personale.
Raggiunse quindi l’illuminazione e l’estasi grazie all’aumento delle sue facoltà percettive. Provò l’esperienza che io e mondo, soggetto e oggetto sono una sintesi armonica ed unitaria.
Per ulteriori approfondimenti, si consigliano i seguenti video:
https://www.youtube.com/watch?v=Wv8LtcxaN2o&t=4s
https://www.youtube.com/watch?v=RfwBCRgWG0w
https://www.youtube.com/watch?v=NJPnTTi47Hs
Una opinione su "Schopenhauer e la psicologia: “Il mondo è la mia rappresentazione”."