L’antropoanalisi: L. Binswanger e l’aspirazione a comprendere la follia.

Introduzione.

Nell’antropoanalisi (analisi esistenziale), l’individuo si interroga su se stesso e sul senso delle sue conoscenze.

L. Binswanger (1881-1966) propone una nuova forma di antropologia, utilizzando il metodo della fenomenologia di E. Husserl: uno studio dell’uomo nella sua originalità soggettiva.

Binswanger parte dall’esigenza di una radicale sospensione del giudizio: intende porre tra parentesi tutte le conoscenze già date e precostituite. A maggior ragione le scienze naturali, in cui l’uomo è ridotto ad un meccanismo, ad una cosa come tutte le altre.

L’antropoanalisi studia il sentimento di esistere: “Io sono”.

L’antropoanalisi non nega la possibilità di considerare l’uomo anche come una “cosa” e come un organismo meccanico, ma non pone al centro questo punto di vista.

Se sospendiamo ogni giudizio sulla validità delle scienze naturali e rimuoviamo ogni elemento prestabilito di conoscenza, ci resta un residuo irriducibile: il nostro personale sentimento di esserci, di esistere.

Non potrei avere, però, consapevolezza di esistere senza un mondo, senza un oggetto cui relazionarmi.

È impossibile vivere senza relazionarsi con qualcuno o qualcosa.

L’uomo come “essere-nel-mondo”.

Rispetto alla fenomenologia, Heidegger ha evidenziato con maggior intensità l’esigenza dell’uomo di relazionarsi con l’altro, fino a sentirsi un tutt’uno con l’ambiente in cui vive.

L’antropoanalisi di Binswanger nasce proprio dalla visione dell’uomo come essere-nel-mondo (“esserci”, dasein).

Non è possibile studiare un individuo avulso dall’ambiente che lo circonda: sarebbe una scissione dolorosa ed alienante.

Una scienza che ponga al centro le esigenze dell’uomo deve quindi superare tutte le distinzioni e le separazioni astratte tra l’individuo ed il mondo in cui vive.

Superare la distinzione tra “scienze naturali” e “scienze dello spirito”.

La psicologia, in passato, è stata scissa da due indagini conoscitive apparentemente incompatibili: le scienze dello “spirito” (che riducono la persona ad un’emissione proveniente da un presunto Essere metafisico, inconoscibile) e le scienze naturali (che considerano l’uomo come una “cosa”, come un organismo freddo e meccanico).

Da questa divisione nasce un essere umano succube di due oggetti che lo sovrastano: l’Essere metafisico (Dio) ed il mondo biologico (la Natura).

L’uomo, come principio unitario, deve ora essere rimesso al centro di uno studio che riguardi la sua originale essenza.

La “scissione” tra soggetto e oggetto è come un “cancro”.

Scrive Binswanger:

“Con la dottrina dell’essere-nel-mondo come trascendenza è stato eliminato il cancro che minava alla base tutte le precedenti psicologie (…) – il cancro cioè rappresentato dalla scissione del “mondo” in soggetto e oggetto, in forza del quale l’essere umano è stato ridotto a nudo soggetto, monco del suo mondo, nel quale hanno luogo tutti i possibili processi, eventi, funzioni”.

In effetti, un soggetto senza mondo non esiste. Se provo a considerare un soggetto-senza-mondo non trovo un essere umano, ma un fantasma.

È altrettanto vero che l’organismo umano naturale, spogliato di soggettività, resta un automa impersonale.

Come afferma Heidegger, l’esistenza umana, invece, per essere autentica, deve essere personale: per realizzare me stesso, devo partire dal sentimento di personalizzazione, ovvero dal riconoscere come appartenente a me ogni mia azione.

Posso rivestire con efficacia un ruolo familiare, sociale o lavorativo solo se lo sento mio.

Altrimenti resterò anonimo o sarò l’imitazione di qualcun altro.

Il sentimento di depersonalizzazione.

L’antropoanalisi evidenzia che l’uomo non è un fantasma, nè un automa.

È vero però che ognuno di noi, quando si trova in crisi, può avvertire il rischio che questa trasformazione avvenga: parliamo del sentimento di de-personalizzazione.

Questo vissuto mi fa sentire impotente, evanescente, incapace; oppure mi riduce ad un oggetto nelle mani di un’altra persona, privo di spontaneità e di autonomia.

La depersonalizzazione può essere un sentimento subdolo, che si insinua sottilmente nella nostra vita quotidiana, spogliandola di un significato. Ad esempio quando diciamo a noi stessi:

“Chi me lo fa fare ad alzarmi questa mattina?”

“Anche se io non ci fossi, tutto andrebbe avanti ugualmente”.

“Sono come un ingranaggio di un meccanismo che può essere sostituito senza problemi”.

“Io sono” come sentimento essenziale dell’uomo. 

Merito dell’antropoanalisi è quello di aver posto al centro del loro studio i sentimenti nucleari del soggetto, che sono l’essenza dell’uomo.

Il punto di partenza è il sentimento dell’Io, incarnato nel soggetto presente nel mondo, in una irriducibile unità (uomo come essere-nel-mondo).

La consapevolezza di sè, per essere concreta, deve essere dinamica ed aprirsi verso gli altri soggetti. Altrimenti assisteremmo solo a staticità e morte. Per sentirci in vita dobbiamo essere sempre in tensione verso il prossimo.

Il sentimento di “cura”.

Questa tensione dinamica si realizza nel sentimento di cura, già messo in evidenza da Heidegger: è un vissuto originario di preoccupazione, coinvolgimento, interesse per un’altra persona, nella quale ritrovo me stesso (relazione dialettica tra me e l’altro).

Ho cura dell’altro perché, in fondo, so che è una parte di me.

La cura corrisponde al sentimento dell’amore, che porta l’uomo ad oltrepassare i limiti egoistici per trovare un’integrazione con l’altro e con la società in cui vive.

L’essere umano può quindi vivere un’esistenza apparentemente armonica, guidato dall’amore per sè e dalla cura dei propri cari.

Prima o poi dovrà, però, prendere atto che la sua vita contingente è come una corda tesa verso il Nulla universale, ovvero verso la morte.

Come posso, allora, conferire un senso alla mia esistenza che non esiti nella disperazione e nel nichilismo?

Superare se stessi: trascendere.

L’antropoanalisi mette in luce un sentimento umano che può permetterci di sopportare ogni vissuto annichilente.

E’ quello di trascendere: di voler superare me stesso ed i limiti costitutivi della mia vita quotidiana. Per aspirare all’assoluto, all’Io universale (con la “I” maiuscola).

Sono sempre io, ma al tempo stesso la mia esperienza personale è arricchita da quella di tutti gli esseri umani, con cui mi sento intimamente connesso, al di là del tempo, dello spazio e di ogni contingenza.

Trascendere è l’esigenza, di ogni individuo, di espandere se stesso e le sue conoscenze all’infinito, senza limiti. Fino a divenire un tutt’uno con l’energia universale.

A questo proposito, l’antropoanalisi propone di affiancare al concetto di essere-nel-mondo, quello di essere-oltre-il mondo: è l’aspirazione di ogni essere umano.

Il sentimento di trascendere e di andare oltre va in crisi nel soggetto psicotico.

L’autismo schizofrenico.

L’autismo schizofrenico è l’incarnazione di un essere umano che si ripiega nella sua solitudine e non riesce a trovare se stesso nell’altro, nè a rendersi universale. Anzi, non riesce neppure a trovare un linguaggio verbale adatto per comunicare il proprio stato interiore.

Nello schizofrenico è frequente l’uso di neologismi, di alterazioni della forma del pensiero, fino alla schizofasia o “insalata di parole”.

Abbiamo visto che l’altro è una parte di me: io divento autistico quando non riesco più a rivolgermi alle altre persone, ma neppure all’altro che è in me (arresto del dialogo interiore).

Non posso quindi più andare oltre me stesso. Anzi, sento di stare andando indietro, di retrocedere a livello delle cose, fino a diventare un automa.

Non sono più io che mi espando all’esterno. Sento che è il mondo ad invadere me stesso ed a penetrarmi.

Sintomo classico della psicosi è la convinzione che il mio pensiero sia stato letto a distanza, rubato e sostituito con altri pensieri imposti da entità esterne a me.

Il mondo interno del soggetto psicotico è davvero incomprensibile?

Jaspers sosteneva di sì: il delirio “primario” (non dipendente da stati di alterazione dell’umore o da gravi sviluppi patologici di personalità) è, secondo questo Autore, non esplorabile psicologicamente.

Secondo l’antropoanalisi di Binswanger, invece, qualunque manifestazione delirante dell’essere umano è comprensibile.

In effetti è estremamente difficile immedesimarsi nel soggetto schizofrenico. Se però lo riconosco come persona, devo dedurre che nulla di umano mi può essere del tutto estraneo.

Non è una comprensione intuitiva, ma vi sono analogie con la nostra esperienza.

Tutti noi abbiamo provato nella vita (per brevi momenti o in modo non pervasivo) la sensazione di perdere spontaneità, di vivere secondo abitudini automatiche e di non riuscire ad andare oltre una monotona quotidianità, in cui il nostro destino appare già deciso.

Non è quindi impossibile lo sforzo immaginativo richiesto al curante per trovare un terreno di comunicazione col paziente.

Un caso clinico.

La descrizione di un frammento di caso clinico proposto da A. Ballerini può essere significativa.

Il paziente afferma:

“Ho pensato e poi mi hanno fatto capire che sono un essere differente…ma io non sono Cristo in terra…io mi pongo sempre la stessa domanda: chi sono, dove vado, da dove vengo (…).

Mi è rivenuto in mente che a quattro anni sono uscito per due volte dal corpo…sono di una razza diversa, speciale…sono forse un germanico? La mia vita è stata tutto un esperimento su di me…sono nato da un fantasma, da una vergine…chi sono?

Come se gli altri mi avessero ingannato nascondendomi la mia vera identità…mia sorella ha qualcosa da nascondere: la mia nascita, perché io sono generato a parte dagli extraterrestri o invece da una congiunzione incorporea fra mio nonno e mia sorella.

Io ho il cervello, ma non il cuore”.

(da A. Ballerini, “Caduto da una stella”, 2005).

Commento.

Dal punto di vista logico e razionale, non si può che ammettere l’incomprensibilità del contenuto espresso dal paziente.

L’antropoanalisi parte però dal presupposto che una comunicazione è sempre possibile: la mia ragione può dichiarare la resa, ma non il mio sentimento e la mia capacità di comprendere. I sentimenti umani sono universali.

Cercando una comprensione del vissuto del paziente basata sui miei analoghi stati d’animo, potrei stabilire un’analogia con le domande esistenziali che tutti noi ci poniamo: chi sono io? Perché sono stato generato? Posso fidarmi degli altri o mi stanno nascondendo qualcosa, magari soprattutto i miei cari?

La frase finale “Io ho il cervello ma non il cuore” risulta molto significativa: quando i nostri sentimenti sono inibiti e rinnegati, non ci riconosciamo più come noi stessi. Ed anche i nostri pensieri diventano incoerenti ed incomunicabili.

Conclusioni.

Guidati dall’atteggiamento dell’antropoanalisi, possiamo riuscire nell’intento di comprendere anche il paziente più grave.

A patto di mantenere l’apertura mentale per andare oltre i pregiudizi e di restare in contatto con l’altro attraverso il sentimento di cura.

Mi riferisco a quel calore umano che non posso spiegare, ma che avverto immediatamente di fronte ad un mio simile, non importa quanto sia diverso da me.

Le patologie psichiatriche possono a volte essere inguaribili, ma mai incurabili.

I sintomi di base della schizofrenia e gli stati mentali “a rischio” di psicosi.

Per approfondimenti: “Il caso Ellen West” di L. Binswanger

Si consiglia la visione del seguente video:

https://www.youtube.com/watch?v=0telmBMraPQ

 

antropoanalisi
“Notte stellata” di Vincent van Gogh (1889).
L’Autore ha dipinto quest’opera nella sua stanza del manicomio di Saint-Rémy, traendo ispirazione dal paesaggio che poteva solo intravvedere dalla finestra.
Ispirati dall’antropoanalisi, possiamo affermare che Il mondo del paziente psicotico è simile ad un’opera d’arte: non si può spiegare con l’intelletto, ma trasmette stati d’animo assoluti, comprensibili attraverso le corrispondenze universali dei sentimenti umani.

2 pensieri riguardo “L’antropoanalisi: L. Binswanger e l’aspirazione a comprendere la follia.

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