“Il mondo è la mia rappresentazione: è questa la verità che vale nei confronti di ogni essere vivente e conoscente. (…) Se mai una qualche verità a propri può essere enunciata, essa è questa“.
Con questa affermazione, A. Schopenhauer, ispirandosi a Kant, descrive i presupposti della conoscenza umana che noi attualmente utilizziamo in psicoterapia: non partiamo dalla realtà oggettivamente intesa come nelle scienze naturali, ma da quella soggettivamente percepita dal singolo individuo, secondo il significato che attribuisce ad essa.
La rappresentazione della realtà è, per il soggetto, più influente della realtà stessa (ammesso che abbia senso parlare di un mondo oggettivamente astratto, in assenza di un soggetto che lo renda “vivo”).
L’insieme delle rappresentazioni di realtà, che abbiamo costruito in base alle esperienze vissute, costituisce la nostra storia personale (ovviamente unica ed irripetibile).
Se chiudiamo gli occhi e riviviamo un’esperienza felice della nostra infanzia, avvertiremo sentimenti analoghi a quelli provati allora.
In modo simile, se riviviamo nella memoria un’esperienza traumatica di abuso o maltrattamento subito, il disagio interiore si riattualizza nel presente.
Le immagini mentali del nostro passato rivivono costantemente in noi, attraverso ricordi che emergono alla coscienza anche in modo automatico ed involontario.
Da qui l’importanza, avvertita da diverse correnti della psicoterapia, di riconoscere i pensieri automatici quando affiorano (psicoterapia cognitiva di A. Beck), di apprendere come accettarli, anziché reprimerli, attraverso tecniche meditative (psicoterapia basata sulla Mindfulness), di invitare il paziente a distinguere tra realtà oggettiva e rappresentazione personale di essa (psicoterapia basata sulla mentalizzazione di P. Fonagy).
La ricostruzione della storia personale è, tuttavia, la base per l’individuazione della tecnica terapeutica idonea, che sarà efficace solo se siamo a conoscenza di che cosa sia davvero di valore, per quel singolo soggetto (ovvero l’insieme delle sue rappresentazioni della realtà), e come queste convinzioni siano maturate nel paziente.
Pensare che, a livello psicologico, non esista una realtà esterna prestabilita può essere destabilizzante. È forse più rassicurante omologarsi ad una serie di valori ed a parametri standard, che talora ci sono imposti dall’ambiente sociale.
Una reazione comune, tuttavia, alla rinuncia alle proprie intime aspirazioni, è il sentimento di depersonalizzazione, ovvero un’esperienza di dissociazione interiore, di percepire con estraneità i propri pensieri, sentimenti e lo stesso corpo come se appartenessero a qualcun altro.
È un vissuto di alienazione, di scomparsa della propria originalità. È la perdita della dialettica interiore, che tuttavia possiamo riacquisire quando diventiamo consapevoli di quanto sta accadendo.
Il recupero della propria autentica personalità avviene attraverso la riscoperta del senso di appartenenza alla propria storia, e dalla sua ridefinizione di un senso.
In alternativa, una prospettiva a-storica, in psicoterapia, si riduce ad un intervento di ricondizionamento del soggetto, che viene invitato a sostituire passivamente reazioni automatiche fonti di disagio con altre che portano ad un migliore adattamento sociale. Il prezzo da pagare, tuttavia, è provare depersonalizzazione.
Questo processo difficilmente è vissuto con gratificazione e partecipazione da parte del paziente, che potrà apparentemente adattarsi meglio alle esigenze ambientali, evidenziando tuttavia, al tempo stesso, appiattimento affettivo ed inerzia emotiva.
Consideriamo fondamentale, per il paziente, non la sua “riprogrammazione” di risposte a determinati stimoli, ma la rinascita del suo dialogo interiore; ripercorrendo l’evoluzione storica di sentimenti e pensieri, l’individuo può riattivarle con un nuovo significato nel momento presente.