Per far luce sul termine di “personalità”, che originariamente va al di là di una concezione attinente alla psichiatria ed alla medicina, si può partire dalla definizione secondo la lingua italiana: “Ciò che è peculiare, caratteristico di una persona nella sua singolarità e quindi è soggettivo, individuale” (dizionari.corriere.it). “L’essere personale, tipico, caratteristico di una singola persona” (treccani.it).
Da queste definizioni si nota, innanzitutto, come il concetto di personalità, essendo in stretta associazione con l’originalità del singolo individuo, sia difficilmente traducibile nei termini della psichiatria naturalistica.
Personalità umana e scienze naturali: un’integrazione di difficile realizzazione
La psichiatria come moderna scienza naturale nasce, come noto, con il modello di Kraepelin, di tipo neurobiologistico e riduzionistico. Secondo l’Autore, obiettivo della psichiatria dovrebbe essere, idealmente, quello di ricondurre l’intera vita psichica di un singolo individuo al suo substrato neuronale, in modo da effettuare un progressivo passaggio dalla dimensione psichica a quella cerebrale, fino ad arrivare ad individuare le basi fisico-chimiche del comportamento umano. Afferma infatti l’Autore:
“Non si potrebbe, a rigor di termini, parlare di malattie della psiche (…) Sono invece le alterazioni del substrato corporeo della vita mentale quelle sulle quali noi dobbiamo, dal punto di vista medico, dirigere la nostra attività ed i nostri sforzi terapeutici”.
Partendo da tali presupposti metodologici, tutto quello che riguarda il singolo individuo, risulta un particolare non significativo, fattore anzi di confondimento; la psichiatria, come scienza naturale, dovrebbe deliberatamente andare oltre l’esperienza del soggetto per diventare uno studio oggettivo del comportamento umano, utilizzando gli stessi criteri della medicina tradizionale.
Nasce qui una prima contraddizione nel rapporto tra psichiatria e personologia: la personalità, come notato in precedenza, andrebbe colta attraverso una valutazione delle caratteristiche originali, uniche ed irripetibile del singolo individuo; la psichiatria kraepeliniana intende invece cercare di abolire proprio questi fattori, per pervenire ad una scienza naturale, avente come oggetto di studio le funzioni nervose superiori.
Nei modelli psichiatrici riduzionistici tradizionali, si tende, coerentemente, a non utilizzare il termine di “personalità”, ma quelli di “costituzione” e di “temperamento”. Secondo una predisposizione genetico-biologica, l’organismo umano sarebbe programmato per reagire a determinati stimoli ambientali con prevedibili risposte comportamentali.
Il modello costituzionale è stato proposto storicamente da E. Kretschmer (1888-1964), che ha distinto diversi tipi costituzionali: picnico, leptosomico, atletico. L’Autore ha tentato di correlare caratteristiche esteriori dell’individuo a tratti psicologici tipici, proponendo una classificazione sistematica, che risulta oggi poco significativa dal punto di vista scientifico. L’aspetto picnico corrisponderebbe al temperamento cicloide e avrebbe caratteristiche predisponenti alla psicosi maniaco-depressiva, quello leptosomico predisporrebbe invece alla schizofrenia, mentre la costituzione atletica sarebbe associata ad un temperamento vischioso e sarebbe fattore predisponente l’epilessia.
Lo studio del temperamento umano è tuttora fonte di interesse e di ricerche atte a stabilire correlazioni con disturbi psichiatrici, in particolare con i disturbi dell’umore. Uno degli strumenti ad oggi più accreditati nello studio del temperamento è la TEMPS-A (Temperament Evaluation Memphis, Pisa, Paris e San Diego). E’ un test autosomministrato, ideato dal gruppo di ricerca di H.S. Akiskal, che intende individuare e misurare, nell’individuo, i seguenti temperamenti: distimico, ciclotimico, ipertimico, irritabile, ansioso.
Secondo C.R. Cloninger et al. (1994), la personalità umana sarebbe la risultante delle interazioni tra due dimensioni psicobiologiche: il temperamento, sotteso da fattori biologici, ed il carattere, risultato dell’insieme dei comportamenti stabilmente appresi dall’individuo in relazione agli stimoli dell’ambiente. Tali fattori sarebbero valutabili empiricamente e, entro certi limiti, misurabili attraverso il Temperament and Character Inventory (TCI).
Com’è evidente, in tale modello si tenta di pervenire ad una concezione di “personalità senza soggetto”: essa sarebbe la risultante di una serie di processi biologici e di automatismi comportamentali. Il termine di personalità perde però, in tale contesto, la sua accezione etimologica originaria.
Il recupero del significato originario di personalità nella psicopatologia fenomenologica di K. Jaspers e di K. Schneider
Partendo dal concetto di “personalità” secondo la lingua italiana (ciò che è soggettivo ed individuale), altre correnti psicopatologiche hanno posto al centro della loro ricerca l’interiorità del singolo individuo ed il suo vissuto. Si parte non da analisi genetico-biologiche e relative a condizionamenti ambientali (relative all’oggetto, non al soggetto), ma dall’esperienza originaria soggettiva, propria di ognuno di noi, di avere un’attività psichica e una tensione verso qualcosa, di provare sentimenti e di voler pervenire ad una visione di sé (coscienza dell’Io) e del mondo (coscienza dell’oggetto).
Soggetto ed attività sono sinonimi, mentre la genetica e la biologia portano a comportamenti determinati da passività e condizionamento.
La psicopatologia fenomenologica di K. Jaspers intende partire proprio da questi presupposti metodologici:
“In ogni vita psichica evoluta esiste questo fenomeno originario e irriducibile, che un soggetto sta di fronte agli oggetti (dati di fatto) e che un Io sa di essere rivolto verso i contenuti. Possiamo quindi contrapporre una coscienza dell’oggetto ad una coscienza dell’Io”.
“Al fenomeno originario che rende possibile il pensare e il volere, noi diamo il nome di riflessività, che è il rivolgersi dell’esperienza interiore su se stessa e sui contenuti esterni. Così insorgono i fenomeni mediati, e tutta la vita psichica umana è permeata di riflessività”.
“In questo manifestarsi e svilupparsi di contenuti, l’Io diventa cosciente della propria personalità”.
L’obiettivo della psicopatologia fenomenologica di Jaspers non è, quindi, la riduzione del soggetto alla realtà oggettuale, come nella psichiatria kraepeliniana.
La vita psichica, secondo Jaspers, nasce proprio da una tensione originaria tra soggetto e oggetto, presupposti formali della scienza psicopatologica.
Si parte quindi dall’esperienza del soggetto (ovvero ognuno di noi), che sviluppa un’attività riflessiva dalla percezione di una problematica originaria, derivante dalla relazione con la realtà oggettuale (ovvero il mondo esterno, gli altri individui, ma anche la propria dimensione corporea). Il ruolo attivo del soggetto, anziché di passiva sottomissione alla realtà naturale, risulta fondamentale.
La relazione dialettica tra soggetto ed oggetto si sviluppa in modo unico e peculiare in ogni singolo individuo ed è alla base della sua personalità. Scrive Jaspers:
“L’uomo, come pensiero, sta nella tensione tra soggetto ed oggetto”.
E’ un rapporto inevitabilmente problematico, conflittuale, che determina le inclinazioni, le attitudini e la volontà dell’uomo:
“La contraddizione è il pungolo che determina il suo movimento creativo. (…) Questa volontà, costantemente in lotta con la sua contraddizione, si distrugge quando si meccanizza ed estingue la vita peculiare delle origini”.
Jaspers lascia intendere che se si perdesse di vista questa tensione originaria, all’interno di ognuno di noi, tra soggetto e realtà oggettuale, risulterebbero privi di significato anche i concetti di riflessione, di intenzionalità e di volontà. L’essere umano verrebbe pertanto ridotto ad un automa, divenendo un passivo elemento meccanico della natura.
Il pensiero jaspersiano è profondamente influenzato dal contributo del filosofo W. Dilthey (1833-1911), esponente del neocriticismo post-kantiano e fondatore dello storicismo tedesco: egli distingueva, da un lato, le scienze naturali, a-storiche e dominate dai principi di causalità e di necessità; dall’altro, le scienze umane, in cui l’intenzionalità soggettiva e lo sviluppo storico individuale e sociale assumono un ruolo determinante.
K. Jaspers, interpretando in chiave psicopatologica questa distinzione, propone due autonome metodologie di conoscenza per studiare l’essere umano. Quando stiamo utilizzando una di esse, non possiamo prendere in considerazione contemporaneamente l’altra:
– Metodologia della spiegazione: l’uomo come elemento del mondo naturale, ovvero ridotto alla componente oggettuale di organismo biologico, dotato di un sistema nervoso di cui possiamo studiare le caratteristiche fisiologiche e le risposte a determinati stimoli ambientali (uomo come automa). In questa concezione non è possibile prendere in considerazione l’originalità del singolo individuo, le sue aspirazioni, le sue volontà.
Nella scienza naturale non esiste alcuna dialettica: esistono leggi di causa e di effetto, cui l’organismo biologico deve passivamente sottostare.
– Metodologia della comprensione: l’uomo come essere dotato di un’attività riflessiva, e quindi di una personalità come presupposto epistemologico, non come sommatoria di comportamenti automatizzati. La personalità nasce dalla percezione, da parte del soggetto, della costante relazione con l’esteriorità naturale (relazione dialettica tra coscienza dell’Io e coscienza dell’oggetto). Ci si riferisce ad un essere umano non passivo spettatore delle leggi di causalità naturale, ma in grado di riflettere attivamente sulla sua condizione, su analoghi stati d’animo di un’altra persona e sul significato della propria esistenza.
“Il comprendere è il ritrovamento dell’io nel tu” (W. Dilthey).
Le caratteristiche personologiche dell’individuo, secondo questo punto di vista psicologistico, si possono cogliere non attraverso la ricerca delle caratteristiche biologiche del suo cervello (metodologia della spiegazione naturalistica), ma attraverso un atto di identificazione analogica spontanea che io, come soggetto, stabilisco tra la mia esperienza psichica e quello dell’altro (metodologia della comprensione).
In questa concezione, l’uomo ha una personalità che si evolve attraverso uno sviluppo storico, il quale riflette le modalità con cui sono maturate le sue funzioni riflessive, attraverso le esperienze di vita.
In questo senso, vissuti di tensione emotiva, di demoralizzazione, di sfiducia o, al contrario, di esaltazione e gratificazione possono essere compresi dall’osservatore attraverso un’immedesimazione con la propria interiorità, essendo sentimenti che differiscono quantitativamente, ma non qualitativamente, con le esperienze di ognuno di noi. Questo meccanismo di identificazione analogica del curante verso il paziente è anche alla base di ogni psicoterapia e dei fenomeni relativi al transfert ed al controtransfert.
K. Schneider ha cercato di distinguere, nel campo della psicopatologia clinica, le caratteristiche delle psicosi e delle personalità abnormi, suggerendo anche una terminologia appropriata nell’individuazione di tali manifestazioni psichiche.
Nel modello da lui proposto, le psicosi sono da equiparare alle malattie somatiche: sia quelle dipendenti da un’eziologia organica nota (cause tossiche, infettive, vascolari, degenerative a carico del sistema nervoso), sia quelle “non fondabili su base somatica”, ovvero la schizofrenia e la ciclotimia (quest’ultima equiparabile alla malattia maniaco-depressiva o disturbo bipolare). Schizofrenia e ciclotimia, pur non avendo correlati patologici a carico dell’encefalo, hanno caratteristiche specifiche sintomatologiche (sintomi di primo e secondo rango per la schizofrenia, alterazioni del sentimento vitale per la ciclotimia), di decorso e di prognosi, per cui sarebbero equiparabili a patologie del sistema nervoso vere e proprie. L’Autore lascia intendere che, con il progresso delle neuroscienze, sarà possibile trovare le basi anatomiche e biochimiche che spiegheranno l’eziopatogenesi di queste “psicosi endogene”.
Per quanto riguarda lo studio delle personalità, invece, Schneider rifiuta esplicitamente l’utilizzo di termini tipici della medicina tradizionale; le personalità abnormi e psicopatiche non sarebbero malattie, per cui sarebbe fuorviante anche il termine di “diagnosi” per identificarle. L’Autore si esprime in questi termini:
“Se l’idea della psichiatria come scienza medica fosse ormai compiuta e definita, la psicopatologia non avrebbe più in essa alcun decisivo peso diagnostico; non avrebbe più alcun significato pratico. Naturalmente, però, ciò ha valore solo per la psicopatologia delle psicosi, non per le varianti abnormi e, stricto sensu, psicopatiche della personalità e per le sue reazioni all’avvenimento, che non solo oggi, ma mai, potranno essere ricondotte a malattie”.
K. Schneider fornisce la seguente definizione: “Per personalità di un essere umano intendiamo l’insieme dei suoi sentimenti e dei suoi giudizi, delle sue tendenze e volizioni”. E’ qui implicito il riferimento ad un soggetto che, in maniera analoga a quanto proposto da Jaspers, sia dotato di un’autonomia tale da provare esperienze attive e riflessive: non a caso vengono utilizzate le espressioni di “sentimenti”, “giudizi”, “tendenze”, “volizioni” (che implicano un Io in prima persona che si ponga in relazione agli eventi della sua vita) e non i termini di “affetto”, “stimolo”, “risposta”, “comportamento”, tipici delle psicologie che intendono abolire il soggetto (o a ridurlo ad un epifenomeno passivo dell’organismo biologico, quindi alla dimensione oggettuale).
Per personalità abnorme, l’Autore intende una personalità che varia in modo significativo rispetto alla media degli altri soggetti per alcune qualità specifiche. Per abnormità non si intende necessariamente una qualità negativa: anche soggetti geniali, che evidenziano doti intellettuali o creative superiori alla norma, sono considerabili personalità abnormi.
Le personalità psicopatiche sono invece quelle personalità abnormi che, per la loro abnormità, soffrono o fanno soffrire la società.
Sulla base di caratteristiche descrittive, vengono distinte diverse tipologie (e non categorie diagnostiche) di personalità: gli psicopatici ipertimici, depressivi, insicuri, fanatici, bisognosi di considerazione, instabili, esplosivi, apatici, abulici ed astenici. Sono molto comuni le tipologie miste, in cui caratteristiche di una delle personalità descritte coesistono con altre: nello studio delle personalità sono comuni manifestazioni caratteriali sfumate, che sfuggono a rigidi inquadramenti categoriali.
Anche all’interno dei disturbi della personalità possono insorgere fenomeni deliranti. Essi tuttavia hanno le seguenti caratteristiche distintive dalle manifestazioni psicotiche della schizofrenia:
– Insorgono in modo comprensibile (concetto di “deliroide” o delirio secondario secondo Jaspers) se siamo a conoscenza dello sviluppo storico dell’individuo.
– Sono esplorabili psicologicamente anche in profondità: risvegliano nel curante analoghi sentimenti di colpa, vergogna, sospettosità, rabbia.
– Non nascono da una frattura dell’esperienza dell’unità di sé: la coscienza dell’Io è alterata ma non è disgregata. Non segnano l’inizio di una “rifondazione” del sé e della realtà, come nella schizofrenia.
– Sono spesso vincolati ad una relazione significativa con un’altra persona, fonte di sentimenti contraddittori e di oscillazioni dialettiche tra vissuti di idealizzazione e svalutazione, di gratitudine e rabbia, di dipendenza e autonomia.
– Sfuggono spesso a tentativi di inquadramento naturalistico e categoriale: le manifestazioni comportamentali sono difficilmente riducibili a “sintomi” di una “malattia”, il decorso è spesso difficile da prevedere, la risposta a farmaci priva di evidenze scientifiche universalmente accettate.
I “disturbi di personalità” secondo il Manuale DSM
Il manuale DSM considera “personalità” una serie di fattori comportamentali (item) stabili e duraturi nel tempo, senza considerare il soggetto nel suo insieme.
Il soggetto viene scomposto in elementi psichici più semplici, fino ad ottenere un “oggetto” di studio. Si intende, come scelta metodologica, far scomparire le caratteristiche originali di singolo individuo alla ricerca di un’indagine esclusivamente oggettiva, utile per studi di ricerca statistici.
Nei “disturbi di personalità” non si fa riferimento all’Io, al Soggetto, ma a comportamenti esteriori; anche a stati d’animo, purchè si possano descrivere oggettivamente.
Non si cerca la qualità dell’esperienza dell’Io (come nelle psicologie personologiche) ma la quantità del disadattamento con l’ambiente.
Il DSM I nasce nel 1952 e si ispira esplicitamente ad un manuale diagnostico ideato nel 1943, denominato “Medical 203”, utilizzato dalle forze armate statunitensi per stabilire, dal punto di vista strettamente prestazionale, se un militare avesse avuto caratteristiche psichiche idonee per prendere parte al conflitto mondiale. A tal fine, è stato ideato un sistema classificatorio categoriale per stabilire lo stato di adattamento o di disadattamento dell’individuo, in relazione allo svolgimento di specifiche mansioni.
Il DSM nasce quindi con un’impostazione funzionalistica, pragmatica, che privilegia i concetti di adattamento-disadattamento, rispetto a quelli più strettamente clinici della psicopatologia classica.
Mentre le prime due edizioni del DSM mantenevano un riferimento implicito al ruolo del soggetto nelle modalità di far fronte agli stimoli ambientali (utilizzando il modello dei “tipi di reazione” di A. Meyer), dalla terza edizione in poi è stata stabilita, dalla APA, l’aspirazione a pervenire ad un “modello neo-kraepeliniano”. Dalla fine degli anni ’70 e con l’uscita, nel 1980, del DSM-III, gli autori dell’APA hanno cercato di individuare specifici sintomi psichici (item, ovvero criteri diagnostici), nell’ipotesi che ognuno di essi fosse correlabile ad un substrato biologico cerebrale alterato.
Dalla terza edizione del DSM, pertanto, ogni riferimento al soggetto ed all’esperienza del singolo individuo è stato intenzionalmente non considerato. E’ stata effettuata una selezione di comportamenti oggettivi, nella ricerca, per ognuno di essi, di una base somatica (tentativo di strutturalismo riduzionistico). Non essendo stato possibile effettuare, in base ad evidenze scientifiche, tale correlazione tra sintomo e struttura cerebrale, essa è stata solo postulata. Ci si è quindi soffermati sui comportamenti oggettivi funzionalmente fonte di disagio e di menomazione funzionale dell’individuo (funzionalismo riduzionistico).
Si può, utilizzando questa metodologia, valutare la “personalità” di un individuo? Anche se, a rigore, sarebbe epistemologicamente più corretto utilizzare il termine di “costituzione”, il DSM, nella sua quinta edizione, propone la seguente definizione:
Un disturbo di personalità rappresenta un pattern abituale di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo e si manifesta in almeno due delle seguenti aree:
Cognitività, affettività, funzionamento interpersonale, controllo degli impulsi.
E’ pervasivo ed inflessibile, è stabile nel tempo, determina disagio o menomazione significativi, esordisce in adolescenza o prima età adulta, richiede una valutazione a lungo termine del paziente.
Come vediamo, l’ “esperienza interiore”, citata nella definizione, viene scomposta e ridotta a quattro elementi quantificabili empiricamente (livello di prestazione in termini di cognitività, affettività, funzionamento interpersonale, controllo degli impulsi). Si assiste quindi ad una metodologica riduzione dell’esperienza del soggetto ad una dimensione puramente oggettuale. Non si ricerca “che cosa senta”, “che cosa provi” il singolo individuo e come si relazioni con le prestazioni della sua mente; si valuta invece quanto la costituzione psichica sia efficiente e, soprattutto, quanto riesca ad adattarsi alle richieste dell’ambiente circostante.
Nel DSM-5 viene anche suggerito, all’interno della Sezione III (“proposte di nuovi modelli e strumenti di valutazione”) un modello alternativo per i disturbi di personalità, sempre focalizzato su elementi funzionalistici e prestazionali, per superare le carenze di una rigida classificazione categoriale.
Caratteristiche alla base della personalità dell’individuo, quali il senso di identità, l’autodirezionalità, l’empatia e l’intimità, vengono operazionalizzate.
In una visione personologica, tali fattori dovrebbero essere considerati sentimenti psichici, da valutare in relazione a come il soggetto viva la propria esperienza dialettica nei confronti di sentimenti opposti e contrastanti (senso di identità vs depersonalizzazione, autodirezionalità vs vissuto di alienazione, empatia vs distacco emotivo, intimità relazionale vs ritiro sociale).
Nella concezione operazionistica del DSM, tali fattori risultano entità a-dialettiche, da quantificare con un punteggio da 0 a 4. Tale scala risulta tuttavia di valore molto diverso da quanto avviene nelle misurazioni della medicina tradizionale (in cui, ad esempio, una pressione arteriosa di 120/80 mmHg indica una misurazione autenticamente oggettiva ed universale) e risulta chiaramente influenzabile dalla valutazione dell’esaminatore.
Pur con le evidenti contraddizioni metodologiche, si aspira ad una visione meccanizzata del comportamento umano. La “personalità”, in questo contesto, sarebbe dunque un concetto provvisorio, nella previsione di poter individuare i correlati biologici e neuronali di un insieme di comportamenti esteriori, definiti come durevoli e stabili.
Assumendo un’ottica neo-kraepeliniana rigorosa, la personalità risulta un’entità progressivamente da abolire e da sostituire con elementi biologici, presupponendo che essi siano, in ogni caso, alla base di qualunque comportamento umano. L’uomo dovrebbe quindi essere progressivamente equiparato ad un automa, secondo quanto era già stato enunciato nel ’700 da La Mettrie (teoria dell’ “homme machine”).
Le psicoterapie cognitivo-comportamentali nascono, originariamente, da una visione meccanizzata della personalità umana. Utilizzando criteri operativi analoghi a quelli proposti dal manuale DSM, tali terapie intendono correggere stili di pensiero e di comportamento disfunzionali, per pervenire innanzitutto ad un migliore adattamento del paziente all’ambiente che lo circonda.
Il concetto di personalità nella psicoanalisi: problematiche conoscitive nella teoria e nella pratica clinica.
Le psicoterapie analitiche, a differenza di quelle cognitivo-comportamentali, aspirano a favorire la libera espressione dell’individuo ed a riconoscergli un’originalità intrinseca. Obiettivo del trattamento sarebbe quello di indurre, nel soggetto, la ripresa di un dialogo interiore, attraverso cui poter pervenire ad una risoluzione di problematiche psichiche significative, mediante processi autoriflessivi, e quindi ad un’evoluzione della sua personalità. Essa è implicitamente intesa come un’entità unica ed irripetibile, che si concretizza nel singolo individuo.
L’aspirazione a porre al centro lo studio della spontaneità originale dell’essere umano e della sua personalità porta la psicoanalisi ad affrontare, tuttavia, problematiche di natura epistemologica sul ruolo da riservare al soggetto ed all’Io. Assegnando a quest’ultimo una sorta di autonomia dal mondo naturale, si preserva la sua originalità; in questo modo tuttavia si deve rinunciare alla fondazione della psicoterapia come scienza naturale. Se invece il soggetto è ridotto ad un’entità naturale, si perdono le sue caratteristiche di originalità e di spontaneità che si vorrebbero promuovere nel corso del trattamento.
Questa intima contraddizione tra l’aspirazione all’universalità scientifica, da un lato, e la preservazione delle caratteristiche individuali del soggetto, dall’altro, è presente nelle opere dello stesso fondatore della psicoanalisi, S. Freud.
Freud, nella sua Metapsicologia, propone la propria teoria dell’essere umano e della sua personalità. Sono distinti diversi punti di vista:
– Topico, in cui sono distinte aree diverse di consapevolezza nella personalità umana: l’inconscio, il preconscio, l’area conscia.
– Strutturale, in cui si distinguono tre strutture psichiche fondamentali: Io, Es, Super-io.
– Economico-dinamico: questo punto di vista riguarda come la libido viene ripartita entro le tre strutture fondamentali della psiche e come può muoversi da una struttura all’altra.
Il punto di vista economico-dinamico, nella visione originaria freudiana, ha senza dubbio un primato rispetto ai precedenti. Freud presenta una struttura meccanizzata della psiche, sostenuta da un’energia pulsionale primitiva (la libido), che costituisce la fonte dell’attività mentale umana. La libido, secondo l’Autore, non sarebbe ancora traducibile in formule biochimiche solo per gli attuali limiti di conoscenza: presumibilmente lo diventerà con il progresso delle neuroscienze.
Secondo la Metapsicologia freudiana, il comportamento umano sarebbe il risultato della ripartizione dell’energia libidica nelle tre strutture fondamentali (Io, Es, Super-io); non viene riconosciuta alcuna autonomia all’Io, ovvero al soggetto, che viene relegato al ruolo di un contenitore sovradeterminato di forze pulsionali. Non vi è quindi spazio per uno studio autonomo della personalità umana.
La stessa psicoanalisi viene definita da Freud come uno studio provvisorio della mente, in attesa di un più coerente modello fisico-chimico che verrà proposto dalle scienze naturali:
“Probabilmente le carenze della nostra esposizione scomparirebbero se fossimo già nella condizione di sostituire i termini psicologici con quelli della fisiologia e della chimica. (…)
La biologia è veramente un campo dalle possibilità illimitate. (…) Non possiamo quindi indovinare quali risposte essa potrà dare, tra qualche decennio, ai problemi che le abbiamo posto. Forse queste risposte saranno tali da far crollare tutto l’artificioso edificio delle nostre ipotesi” (Al di là del principio del piacere, 1920).
“Può darsi che in futuro qualcuno ci insegnerà come influenzare direttamente, con speciali sostanze chimiche, le quantità energetiche e la loro ripartizione nell’apparato psichico. (…)
Per ora non abbiamo nulla di meglio a disposizione della tecnica psicoanalitica; per questo, nonostante i suoi limiti, non bisognerebbe disprezzarla” (Compendio di psicoanalisi, 1938).
La visione esplicitamente naturalistica del comportamento umano viene tuttavia messa in crisi, nel contributo dello stesso Freud, nella teoria del narcisismo, in cui si introduce il concetto di “Io riflessivo”.
Il narcisismo viene talora definito dall’Autore come il risultato patologico di una ritenzione di libido da parte dell’Io: tale struttura psichica sarebbe impossibilitata ad impiegare le proprie energie sugli oggetti relazionali o effettuerebbe un disinvestimento degli istinti da essi (portando quindi allo sviluppo di una “nevrosi narcisistica”, ovvero di una psicosi).
In altri scritti di Freud, per narcisismo si intende invece l’amor proprio, il valore che l’Io attribuisce a se stesso attraverso la consapevolezza che il soggetto ha di sé: si fa riferimento ad un Io riflessivo, ovvero ad un’entità che è difficile tradurre in termini meccanicistici. Si può invece paragonare l’Io riflessivo al concetto di “coscienza dell’Io” secondo Jaspers. In questo senso, anche i “meccanismi di difesa” sembrano andare al di là di semplici automatismi passivi dell’Io (riducibili ad entità fisico-chimiche), assumendo ora il ruolo di modalità attraverso cui il soggetto prende attivamente coscienza di se stesso (analogamente, Jaspers proponeva il concetto di coscienza dell’attività dell’Io):
“…la rimozione procede dall’Io. Potremmo essere più precisi e sostenere che procede dalla considerazione che l’Io ha di sé. Le stesse impressioni, esperienze, impulsi, moti di desiderio nei quali un individuo indulge (…), sono respinti da un altro con la massima indignazione o almeno soffocati prima di pervenire alla coscienza” (Introduzione al narcisismo, 1914).
E’ implicito, in questo passo, un ruolo attivo da parte dell’Io, che avrebbe l’autonomia per accettare o rifiutare impulsi provenienti dalla sfera istintuale. Tale visione contraddice la teoria dello stesso Freud secondo cui l’Io sarebbe un passivo contenitore di cariche energetiche, che lo condizionerebbero come un automa.
Anche in opere successive, Freud lascia intendere che l’aspirazione della psicoanalisi sarebbe quella di aiutare il paziente a raggiungere un’indipendenza del suo Io da pulsioni istintuali, da un lato, e da norme morali provenienti dall’ambiente, dall’altro:
“L’intenzione terapeutica della psicoanalisi è in definitiva di rafforzare l’Io, di renderlo più indipendente dal Super-io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell’Es. Dove c’era l’Es, deve subentrare l’Io” (Introduzione alla psicoanalisi – nuove lezioni, 1932).
Nell’opera del 1932 si arriva a concepire l’Io come “soggetto per eccellenza”, ovvero come la parte più autentica della personalità, che può emergere, tramite la psicoanalisi, attraverso il processo di riflessione del soggetto su se stesso (che l’analista ha il compito di stimolare):
“L’Io può prendere come oggetto sé medesimo, trattarsi come altri oggetti, osservarsi, criticarsi e fare di se stesso Dio sa quante cose ancora. Così facendo, una parte dell’Io si contrappone alla parte restante” (Introduzione alla psicoanalisi – nuove lezioni, 1932).
Nella ricerca di pervenire ad un Io autonomo, attraverso la progressiva conoscenza che il soggetto ha di sé, tramite il processo di autoriflessione, Freud giunge ad analoghe conclusioni a quelle di Jaspers: quest’ultimo, partendo da princìpi diametralmente opposti, definisce la riflessività come “il rivolgersi dell’esperienza interiore su se stessa e sui contenuti esterni”, che permea l’intera vita psichica umana e mediante la quale “l’Io diventa cosciente della propria personalità”.
In Freud, quindi, la personalità è la risultante di un insieme di automatismi, derivabili da reazioni fisico-chimiche? Oppure il presupposto dell’attività di un Io autonomo dall’esteriorità naturale (soggetto), che prende consapevolezza di se stesso tramite una relazione dialettica con la natura stessa (oggetto)?
L’Autore sembra utilizzare alternativamente, nelle sue opere, entrambi i punti di vista:
- Sul piano teorico, Freud, come neurologo positivista, intende far rientrare la psicoanalisi nelle scienze naturali: la sua Metapsicologia, pertanto, sembra sancire il primato della teoria degli istinti e di una meccanizzazione della psiche (relegando la personalità ad un epifenomeno da ricondurre alla dimensione biochimica).
- Sul piano pratico, Freud ha l’esigenza di indurre nel paziente, attraverso il percorso analitico, la ripresa di un autentico dialogo interiore, che possa consentirgli, progressivamente, di poter affrontare in autonomia le proprie problematiche psichiche attraverso la presa di coscienza dei propri limiti, delle proprie qualità ed aspirazioni: si parte quindi dal riconoscimento implicito di una personalità, in continua ricerca della piena consapevolezza di sé attraverso la relazione con l’alterità (rappresentata dalla figura dell’analista) .
Gli sviluppi successivi della psicoanalisi, attraverso il contributo dei teorici delle relazioni oggettuali, del Sé e dell’intersoggettività, hanno messo in evidenza come nella stessa relazione tra curante e paziente (attraverso l’analisi del transfert e del controtransfert) vi siano i presupposti terapeutici che consentano all’analizzando di pervenire ad una maturazione della propria personalità; essa viene riconosciuta come un presupposto dell’essere umano e non come la risultante di automatismi da studiare in ambito naturalistico.
Concludendo, il concetto di personalità non è univoco, né nella psicopatologia contemporanea, né dal punto di vista conoscitivo (ovvero epistemologico). Si possono distinguere due orientamenti fondamentali:
– Riduzionismo: il soggetto viene ridotto alla componente naturale (oggetto) e quindi considerato passivo, privo di qualsiasi autonomia. Secondo questo modello, la “personalità” è un concetto fittizio, risultato della somma di comportamenti automatizzati e meccanici. Il termine “personalità” è provvisorio, da abolire quando saranno note le basi biologiche e chimiche dell’organismo umano. E’ la metodologia utilizzata dalle scienze naturali ed emergente, nella nosografia psichiatrica, dall’impostazione del Manuale DSM.
– Integrazionismo: il soggetto viene riconosciuto come termine attivo e basilare nello studio della psicopatologia umana, unitamente a quello dell’oggetto (ovvero il mondo naturale). La vita psichica nasce dalla stessa relazione dialettica originaria tra soggetto ed oggetto, e la personalità è il modo attraverso cui ogni individuo struttura questo rapporto fondamentale.
La visione integrazionistica della personalità umana è caratteristica della psicopatologia fenomenologica di K. Schneider e di K. Jaspers.
Nel movimento psicoanalitico, come visto precedentemente, assistiamo ad un’oscillazione tra elementi riduzionistici (teoria della libido) ed aspirazione a pervenire ad un’autonomia del soggetto (teoria delle relazioni oggettuali, la quale presuppone un soggetto che le strutturi, secondo il pensiero di D. Winnicott e M. Balint; teoria dell’Io riflessivo e degli “oggetti-Sé”, sviluppata da H. Kohut).
Una consapevolezza sui nostri strumenti conoscitivi è fondamentale per giungere ad una ricerca proficua sulle problematiche di personalità in ambito psicopatologico.
Nel caso si scelga di attribuire un’autonomia al soggetto ed alla sua interiorità, è necessaria una riformulazione in termini dialettici della psicopatologia: partendo dalla tensione originaria tra soggetto e oggetto come sorgente della vita psichica stessa, si potrà pervenire ad una teoria della personalità umana e del suo dello sviluppo, armonico o abnorme.
Riferimenti bibliografici:
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– Freud S, L’Io e i meccanismi di difesa, 1936.
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– Freud S, Introduzione alla psicoanalisi – nuove lezioni, 1932.
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